Altrimenti tolgo il disturbo

Abbiamo ricevuto del nostro lettore Paolo D’Alvano una bella e amara lettera di considerazioni sul (mal)funzionamento della Pubblica Amministrazione, con particolare riferimento alla materia del reclutamento dei docenti e, nella fattispecie, dei dirigenti scolastici. La pubblichiamo volentieri apprezzando lo spirito con il quale essa è stata scritta, e invitiamo altri lettori a intervenire sul tema, o a proporne altri, scrivendoci come di consueto all’indirizzo dedicato la_tribuna@tuttoscuola.com.

  

ALTRIMENTI TOLGO IL DISTURBO

Gentile direttore

sono il Prof. Paolo D’Alvano, insegno nella scuola superiore statale Vittorio Bachelet di Oggiono (LC).

Mi considero, nonostante il parere non sempre benevolo del mio datore di lavoro, un buon dipendente pubblico.

Il mio datore di lavoro dovrebbe scegliere il personale in base al principio costituzionale che sancisce l’accesso ai pubblici uffici previo superamento di un pubblico concorso: la pubblica selezione dei migliori. Tuttavia, ammetto che non sempre questo accade. Per certo ci sono procedure diverse per selezionare dei bravi impiegati pubblici. Procedure, già sperimentate in altri paesi europei, che garantendo l’imparzialità dell’azione della P.A. superano altresì i bizantinismi dei concorsi.

Sono stato un laureato figlio della piccola proprietà contadina. Un giovane che guardava Milano come ad un forziere traboccante di opportunità. Così ho seguito l’unica regola che, tutt’ora, consente l’accesso all’impiego pubblico. Di certo avrei potuto percorrere altre vie professionali. Ma, ventitré anni orsono l’impiego pubblico per un ragazzo del sud aveva un certo appeal. Quante speranze nutrivo e come sembrava sorridermi la vita! Così, un po’ per fortuna e un po’ per merito, mi si perdoni il peccato di vanità, di concorsi ne ho superati e vinti diversi nella mia vita professionale. In questo modo ho avuto l’indubbio privilegio di poter scegliere il lavoro più interessante per me: l’insegnamento. Arrivo nel mondo della scuola, quindi, dopo aver svolto altri lavori come funzionario in altre pubbliche amministrazioni. Sempre vincitore, non semplicemente idoneo, di un pubblico concorso.

Intanto, a partire dagli anni ottanta, gli stati hanno usato in modo dissennato la deficit spending policy.

Il debito sovrano, finalizzato anche a scopi clientelari ed elettorali (si parlava di assalto alla diligenza quando veniva approvata la vecchia legge finanziaria), ha raggiunto e superato l’ammontare della ricchezza prodotta dal nostro Paese in un anno.

Oggi i vincoli e le esigenze della finanza pubblica presentano il conto. Chi lo paga?

Nelle ultime leggi di approvazione del bilancio dello Stato (parlo del settore dell’education perché mi concerne), l’istruzione pubblica è diventata un costo. Non più fattore di sviluppo umano per eliminare gli ostacoli verso una concreta uguaglianza di opportunità per le giovani generazioni, bensì un onere a carico del bilancio statale e della comunità che va ridotto in modo drastico.

In effetti, negli ultimi tempi provo imbarazzo a qualificarmi come insegnante. In un rapporto di parte al tutto anch’io rappresento un costo per la comunità in cui vivo. Un costo superfluo, come l’istruzione. Un costo da eliminare. Allora ecco che qualche collega comincia a pensare che, forse, è il caso di togliere il disturbo.

Molti insegnanti, specialmente molti colleghi maschi, sarebbero stati disposti ad aumentare le ore di lavoro in cambio di un aumento stipendiale. Ma, in questo strano mondo, per un tacito accordo tra governi e sindacati, né la trimurtì sindacale, né i governi che si son via via succeduti alla guida del nostro sventurato Paese, hanno davvero voluto un aumento della produttività del lavoro dell’insegnante.

Tutte le parti sociali hanno avuto un preciso e, dal loro punto di vista, comprensibile obiettivo: dividere la torta in parti uguali fra quante più persone è possibile. Parità. Ecco la parola giusta per indicare questo egualitarismo al rovescio. Parità. Al ribasso però.

Un gioco durato fino a quando le finanze pubbliche lo hanno consentito. Fino alla stoccata finale. Il datore impone al dipendente di lavorare sei ore in più alla settimana senza aumentare di un euro la sua paga!

È’ stata ripristinata la servitù della gleba e non mi sono accorto di niente?

Tolgo il disturbo. Cerco nuove strade. Riprendo a studiare inglese. Penso di andarmene all’estero. Tanti nella mia famiglia lo hanno già fatto e i miei cari mi seguirebbero.

Intanto, nel 2011 mi iscrivo al concorso (ancora!) per dirigente scolastico. Nel 2012, dopo una selezione durata un anno, sono risultato tra i vincitori del concorso, in Lombardia, la mia terra adottiva.

La selezione ha avuto una lunga gestazione: fase pre-selettiva, fase delle prove scritte (due), fase del colloquio, valutazione dei titoli, graduatoria dei vincitori.

Abbiamo superato la selezione in 406 (circa 4000 concorrenti). In palio c’erano 355 posti da dirigente scolastico.

Ad oggi nessuno dei vincitori ha preso servizio perché il concorso, bandito dal Ministero dell’Istruzione, ha concluso il suo iter con la pubblicazione della graduatoria di merito, ma è stato bloccato dal TAR di Milano per presunte e mai provate irregolarità procedurali attribuibili, nel caso, all’amministrazione e non certo ai concorrenti come me. I giudici di appello del Consiglio di Stato si pronunceranno definitivamente nel merito della vicenda il 20 novembre 2012.

Cos’è accaduto in questo Paese che ha un elevatissimo tasso di litigiosità giudiziale? Semplice, è accaduto che i bocciati non hanno accettato l’esito della selezione e, con l’aiuto di bravi avvocati (bravi e inclini a fomentare le liti) sono riusciti, per ora, ad annullare il concorso. Insomma, sono stati strumentalmente invocati, mai provati, presunti vizi di forma, allo scopo di consentire agli stessi bocciati di rifare il concorso.

Giusto. Tutti devono avere una seconda chance. È il principio di parità al rovescio che lo impone.

Però i ministri dell’istruzione che si susseguono non vengano a invocare l’affermazione del merito.

È una invocazione priva di ogni dato sostanziale.

Eccomi, invece, a combattere la mia quotidiana battaglia, insieme a migliaia di meritevoli colleghi, nell’autunno del diffuso scontento. Una battaglia anche contro la pubblica opinione che si lascia facilmente convincere dal ritornello dei “soliti insegnanti fannulloni” o dei “soliti concorsi pubblici truccati e giustamente annullati dalla magistratura”. Ma stavolta non è andata così. E, pur conscio dell’accidentato cammino, mi batto per affermare la Ragione e il Diritto, con piena fiducia nella Giustizia in nome della Verità e del Merito.

Altrimenti non resta che togliere il disturbo.

Cordialmente

 

Paolo D’ALVANO paolo.dalvano@libero.it