Statistiche e senso comune

di Patrizia Selleri*

Nel 2007, Daniel Pennac in Diario di scuola, ci ricorda che nella vita “statisticamente tutto si spiega, ma personalmente tutto si complica”. Per affrontare ancora una volta il tema del disagio degli adolescenti, dopo aver ascoltato le tante voci che con sicurezza individuano e descrivono le cause di questo disagio, una prospettiva che parta dal metodo potrebbe essere utile per riflettere su un fenomeno già di per sé difficile da definire e troppo complesso per essere ridotto a singole cause. Inoltre, nell’ambito della generica nozione di disagio dei giovani, la nostra attenzione tende ad essere indirizzata verso le notizie che riguardano soprattutto i fatti cruenti. Accoltellare un coetaneo per un post offensivo condiviso in rete, sterminare la propria famiglia, nascondere il frutto di gravidanze indesiderate sono eventi drammatici, che meriterebbero un po’ di rispetto per chi resta a raccogliere di pezzi di vite andate in frantumi; invece i cronisti scavano nelle pieghe del dolore, sperano forse di dare conforto alle nostre paure, aggiungendo dettagli che possiamo confrontare con quelli delle nostre vite, convinti di poter girare le spalle e raccontare a noi stessi che sì, a noi con buona probabilità non dovrebbe capitare.

Statisticamente i cronisti dimenticano sempre di informarci sui fatti, troppo presi dal clamore della notizia. Prendendo il periodo degli ultimi cinque anni, quanti eventi dello stesso tipo si sono verificati? Questo ci permetterebbe di capire, rispetto alla popolazione italiana, la frequenza con cui un particolare evento si verifica, un dato che già da solo potrebbe mostrarci se ci sono tendenze alla stabilità, all’aumento oppure alla riduzione. Prendendo poi il numero di eventi rilevati per ogni tipologia, diciamo, negli ultimi due anni, si ottiene una base dati da cui si può capire l’entità del cambiamento. Facciamo un esempio: un aumento del 10%, su una base dati di 10 eventi, corrisponde a 1 evento in più. Quando veniamo travolti da percentuali, di cui non conosciamo il dato su sono state calcolate, in modo ingenuo decidiamo il valore da assegnare al numero percentuale sulla base della natura dell’evento: un aumento del 10% di adolescenti definibili come ritirati sociali è il segno del malessere che attraversa la nostra società, un aumento del 10% degli studenti delle superiori che scelgono di frequentare un anno scolastico all’estero è un successo del nostro sistema scolastico.

In entrambi i casi, se la base dati fosse 10 eventi nei due anni precedenti, l’aumento sarebbe di una unità, quindi di scarsa significatività statistica.

Personalmente, per ogni famiglia in cui un figlio si chiude in camera e rifiuta di avere rapporti con il contesto esterno, quell’aumento di 1 unità percentuale rappresenta un aumento del 100% e quindi tutto si complica.  Come è possibile che nessuno sia riuscito a cogliere i segnali di quanto stava per accadere? Cosa avremmo potuto fare per evitarlo? Probabilmente non ci sono risposte all’altezza degli interrogativi posti da ciò che è accaduto. Essere genitori di adolescenti è diventato un lavoro molto complicato, perché si è allargata la parte della vita dei figli che si svolge lontano dalla famiglia, lasciandoli immersi in un costante confronto fra pari in cui forse nessuno ha interesse, o è in grado, di intervenire facendo riferimento al principio di realtà. Statisticamente potremmo descriverlo come un cambiamento culturale nonostante il quale, con alti e bassi, genitori e figli riescono a superare gli anni critici della scuola secondaria evitando la gran parte dei problemi; individualmente si tratta di una famiglia il cui figlio diventa parte di un evento critico, che segnerà per sempre la sua vita.  La scrittrice Silvia Avallone, dopo aver svolto un’esperienza di volontariato in un carcere minorile, in Cuore nero (2024), seppure nella finzione narrativa, mette in luce la difficoltà di chiudere i conti con eventi che, elaborati negli anni, portano alla consapevolezza di come non si potrà mai cambiare ciò che è stato e non si potrà mai ridurre la sofferenza provocata.

Quando ci allontaniamo dalle statistiche per affrontare i singoli casi, ciò che serve è l’anamnesi dell’individuo e l’approfondimento delle relazioni di cui è parte, per cui anche la scuola viene coinvolta per ricostruire la cornice psico-sociale all’interno della quale avviene la crescita e lo sviluppo di ogni adolescente. A genitori ed insegnanti si chiede di ricostruire se ci siano stati cambiamenti nell’umore, nel comportamento, nel rendimento del ragazzo o della ragazza; a posteriori alcuni potenziali segnali possono essere riconosciuti, ma spesso questi cambiamenti si riconoscono anche in altri ragazzi. La disregolazione emozionale, agire un pensiero ricorsivo, sottovalutare il rischio sono punti di svolta, anche drammatici, che non fanno statistica, ma la storia personale di un individuo.

D’altro canto, ognuno di noi è in grado di utilizzare forme di mimetismo che ci permettono di nascondere agli altri, anche per molto tempo, una parte della nostra vita; ci vuole tempo perché un problema di alcolismo venga seriamente preso in carico dalle famiglie, i disturbi alimentare iniziano spesso in forme che possono essere tenute sotto controllo e l’autolesionismo, tra felpe extralarge e pantaloni può restare nascosto per mesi. Anche le emozioni forti, come l’odio e la rabbia, possono essere controllate e coltivate a lungo; dipende dalle capacità cognitive del soggetto, dalle strategie di controllo costruite, gestite e messe in atto con lucidità e consapevolezza, dalla percezione degli eventi esterni come più o meno pericolosi ed invasivi.

Sarà semplice, banale senso comune, ma forse gli adulti potrebbero dedicare un po’ più di tempo a sottolineare, soprattutto con gli adolescenti, il rapporto diretto fra le azioni ed i loro effetti; potrebbero ridurre un po’ la tendenza a ridimensionare, a normalizzare le intemperanze dei giovani facendole passare come una caratteristica dell’età; potrebbero tornare ad essere adulti significativi nello sviluppo, rinunciando al ruolo meno impegnativo di chi risolve i problemi piuttosto che lavorare per evitarli. Siamo così pieni di paure per il futuro dei giovani che evitiamo di condividerle con loro; le teniamo per noi ed aumentiamo le forme di controllo; vogliamo sapere cosa guardare in loro per capire come giocare d’anticipo; cerchiamo un segno tangibile del disagio sul punto di esplodere.

La psicologia evoluzionistica ci ricorda che la capacità di rappresentarsi gli stati mentali degli altri, condividere con loro esperienze significative e il sentirsi coinvolti nel portare a temine obiettivi comuni è la base del comportamento prosociale, che produce varie forme di benessere collettivo, aumenta l’altruismo reciproco e la coesione del gruppo. Di nuovo sarà semplice e banale, ma forse se ci confidassimo con i nostri figli, se ammettessimo le nostre fragilità, se fossimo in grado di dire semplicemente che abbiamo paura di perderli, ci offrirebbero il loro aiuto per continuare la nostra strada insieme.

*Docente Universitaria Alma Mater Studiorum Università di Bologna – Dipartimento di Psicologia

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