
La proposta insistita del ministro Zaia di introdurre l’insegnamento obbligatorio del dialetto veneto nelle scuola sembra che faccia più sorridere che discutere.
Il ministro Gelmini ha preso garbatamente le distanze facendo capire che per il momento (e forse per molto tempo ancora) ci sono cose più importanti da insegnare.
Zaia non si è accontentato della non risposta della collega dell’Istruzione e ha continuato a insistere sulla proposta dell’insegnamento del veneto, parlato dal 70% della popolazione veneta e dagli stranieri presenti. Ha scomodato anche la Chiesa cattolica che, a suo dire, vedrebbe i parroci favorevole alla proposta.
La regione Veneto a suo tempo ha riconosciuto quel dialetto come lingua, ma non ha trovato attenzione da parte dello Stato italiano.
Se, comunque, qualcuno vorrà farsi carico della proposta, dovrà tener conto che, oltre al veneto, in Italia ci sono circa 200 altri dialetti parlati più o meno diffusamente.
Localmente i dialetti (qualcuno ha provato a censirli e ne ha contati 197) hanno spesso molte varianti mai censite che sono certamente dell’ordine di centinaia e centinaia.
Se venisse accolta la proposta per insegnare il veneto, non si capisce perché non possano essere insegnati localmente tanti altri dialetti.
L’Italia riconosce le minoranze linguistiche (legge 482/1999) e per esse è previsto un apposito spazio negli insegnamenti delle specifiche località. Per il Veneto no.
Se si volesse insistere sulla proposta, in assenza di leggi apposite, l’unico spazio utilizzabile nella attuale normativa è la quota di curricolo (5%?) nelle scuole del primo ciclo rimesse alla Regioni.
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