Valutazione: ‘Quis custodiet ipsos custodes?’

La Circolare ministeriale n° 85 del 3 dicembre 2004, che ha ribadito la totale autonomia delle scuole nei confronti degli strumenti di valutazione degli alunni, ha ingenerato accanto ad un ovvio dibattito sull’argomento una tenue difesa della vecchia scheda di valutazione ed una serie di reazioni di autentico stupore. Lo stupore può essere racchiuso tra due estremi: da una parte quello di chi ritiene che ancora una volta siano stati bruciati in maniera immotivata i tempi e si sia data un’accelerazione strumentale ad una materia molto delicata, dall’altra parte quello di chi ritiene che ancora volta siano state date spiegazioni tardive su un argomento che stava già scritto nelle leggi. La Circolare ministeriale n° 85 ha dimostrato una volta di più come le scuole, benché dotate di un’autonomia di rango costituzionale[1], abbiano forti difficoltà a deliberare sulla base delle leggi ordinarie. Sembra quasi che una vecchia cultura (quella dei Provveditorati agli studi) abbia sedimentato una mentalità così forte, da far ritenere la circolare come l’elemento ordinatore del sistema, quando ormai è chiaro che le circolari non possono che ribadire quello che già le leggi hanno sancito. Spesso le circolari lo fanno attraverso un uso della lingua italiana ancora più bizzarro di quello già ermetico usato dai legislatori.


Potrebbe essere tema di interesse giuridico ed antropologico cercare di capire perché le scuole trovino difficoltà ad applicare le leggi una volta che queste sono state emanate, mentre siano disponibili anche ad accelerare i tempi di fronte alle circolari, che non possono avere valore legislativo e che non riescono ad aggiungere nulla a quanto già il legislatore aveva previsto. La domanda essenziale però da porsi in questo momento non è questa, ma quella che potremmo riassumere in questo modo: “come e che cosa valutare?” Maurizio Tiriticco nell’articolo Dalla pagella alla scheda
[2] argomenta a partire dalle varie evoluzioni avute negli ultimi 27 anni degli strumenti di valutazione degli alunni e, ad un certo punto, si chiede: “Ma che senso ha una libertà di questo tipo? Non è quella che vogliono gli insegnanti”. Giancarlo Cerini, poche pagine prima, aveva già dato una risposta implicita alla domanda di Tiriticco,“La valutazione dei livelli di apprendimento conseguiti dagli alunni è sempre stato un punto debole del nostro sistema scolastico”[3], centrando il cuore della problematica. Se da un lato i docenti sono certi di avere competenze professionali per la valutazione degli alunni, dall’altro lato devono costatare, loro malgrado, che queste competenze vengono sempre più messe in dubbio dalla società civile.

 

LITERACY[4] QUESTA SCONOSCIUTA

 

Il rapporto P.I.S.A.[5], nell’edizione del 2003, ha ribadito sui nostri quindicenni cose già percepite a livello epidermico dalla società e che solo la scuola si ostina a negare. Che poi la scuola dell’obbligo possa sentirsi innocente di fronte ad una bancarotta nel sistema della Literacy degli adolescenti appare perlomeno singolare. Anche perché il nostro sistema dell’istruzione continua a valutare abilità e conoscenze, mentre P.I.S.A. verifica l’esistenza di competenze. Come è possibile valutare una competenza con un sistema tarato sulle conoscenze è cosa difficile da spiegare e infatti nessuno la spiega.[6] L’INVALSI[7] si sta “lanciando” nel tentativo di verificare le competenze in italiano, matematica e scienze di una fascia enorme di alunni, ma difficilmente troverà qualcosa di diverso da quanto registrato dal P.I.S.A. sulle Literacy in uscita nelle tre materie. La base di partenza teoretica che diversifica il sistema di rilevamento P.I.S.A. da quello valutativo della scuola italiana è che da una parte si usano le materie per testare la presenza di competenze, dall’altra invece si studiano le materie per imparare conoscenze e abilità. Come scrive Chiara Croce il concetto di Literacy “racchiude in sé il concetto di ‘padroneggiamento’ di quanto si è appreso, ossia di ‘competenza’”. Tutto questo sposta l’asse dell’attenzione sugli apprendimenti, eliminando ogni attenzione autoreferenziale sugli insegnamenti. Scrive ancora la Croce: “PISA, quindi, non si propone di ‘misurare’ ciò che gli allievi hanno appreso a scuola in rapporto a un determinato programma di studio, ma se, e in quale misura, essi siano capaci di utilizzare quanto hanno appreso per affrontare problemi ‘reali’ di ordine linguistico, matematico, scientifico”. [8]

Nella società italiana sta diventando sempre più forte il rifiuto per qualsiasi strumento di valutazione (dalla “pagella” a ISO 9000 per intenderci), partendo dalla constatazione che “mio figlio, che sta frequentando il quarto anno del liceo in America, è il migliore della classe, per cui sono tutte storie quelle sulla scuola italiana che non prepara”. La struttura empirica dell’osservazione italiana, orientata più dal sentito dire e dall’esperienza personale che dalle conoscenze oggettive, si fa sentire anche in chi se ne vorrebbe allontanare. Tutti gli OSA (Obiettivi specifici di apprendimento), con buona pace di Giuseppe Bertagna e del gruppo ristretto, risentono pesantemente di condizionamenti empirici, di visioni casalinghe del sapere, di spazi di pedante tecnocrazia inutilizzabile. Che alla base della valutazione nella scuola italiana ci sia il modo sentire dell’insegnante e non rigorose strategie valutative è spesso considerato come un elemento di valore e di caratterizzazione. La classe insegnante è, nel suo complesso, insensibile ad ogni richiamo ad una valutazione oggettiva, ritenuta di per sé “eccessiva” anche quando non nasce da prove strutturate.


 

LA CONTINUITA’ DIDATTICA

 

Nessuno pare essere sfiorato dal dubbio che alla base delle difficoltà incontrate dal sistema dell’istruzione italiano sul problema della valutazione ci sia l’acquisizione del concetto di “continuità didattica” come concetto in sé positivo. La scuola italiana si riferisce sempre alla “continuità didattica” come ad un fattore di stabilità, di sicurezza, di garanzia per l’alunno, di efficacia dell’azione didattica e di efficienza del sistema.[9] La continuità didattica è però intesa dalla scuola italiana come continuità di presenza dello stesso insegnante nella stessa classe: questo ha spesso evitato di creare precise programmazioni e progettazioni che preludessero ad una valutazione veramente obiettiva e non legata al rapporto tra l’insegnante e l’allievo.


Si ponga mente alla legge 148 del 1990 e a quanto quella legge prevedeva, anche se in termini dubitativi: il biennio prevedeva “di norma” un insegnante prevalente
[10], che poi era sostituito nel triennio dall’organizzazione modulare. Già questo primo passaggio predisponeva ad una certa perdita di continuità didattica, in quanto l’insegnante prevalente in terza elementare sarebbe stato sostituito in qualche ambito di insegnamento. La stessa legge inoltre indirizzava verso una rotazione dei docenti di modulo nelle varie discipline e questo avrebbe fatto perdere di nuovo una parte di continuità didattica ad alcuni segmenti del curricolo[11]. Come è andata lo sanno tutti, compresi quelli che ostacolarono negli anni novanta la legge 148/90 e oggi la brandiscono come vessillo di libertà contro il Ministero: la modularità è entrata già in prima elementare e nessun insegnante ha ruotato, tant’è che si è creata la situazione paradossale, per cui negli “organici di fatto” della scuola elementare gli ambiti si siano delineati in modo analogo alle “materie” della scuola media.


Credo che non ci sia più tempo per riportare il concetto di continuità didattica al suo iniziale alveo scientifico, che è quello “continuità didattica” per i programmi, per le metodologie di insegnamento, per le valutazioni. Se un Istituto progetta il suo “curricolo” (se si vede la questione dal punto di vista del DPR 275/99) o le sue “unità di apprendimento” (se si vede la questione dal punto di vista delle Indicazioni nazionali allegate al D.lgs 59/2004) secondo quanto prevedono gli ordinamenti vigenti, diventa quasi necessario ruotare gli insegnanti sugli alunni creando una struttura tutoriale di garanzia (e di responsabilità) e un sistema di valutazione che coinvolga al tempo stesso gli alunni, la scuola, gli insegnanti, il dirigente, il personale ausiliario. La vecchia domanda di Giovenale “Quis custodiet ipsos custodes?”
[12] è più che mai di attualità nella scuola italiana, perché pare non essere più accettato dalla società che chi valuta gli altri (gli alunni) non voglia farsi valutare. La valutazione nel suo complesso ha possibilità di essere obiettiva solo se esce dal possesso presunto: la “mia” classe, i “miei” alunni, le “mie” materie non sono più argomenti, ma ostacoli. Abbiamo bisogno di sistemi che funzionano, non di opinioni in libertà, di
episteme (episteme) valutativa e non di doca (doxa) emozionale, dato che, almeno per quella, ci sono già i sondaggi.

 

 

Stefano Stefanel

Dirigente scolastico incaricato

Istituto comprensivo di Pagnacco



[1] L’art. 117 del nuovo testo della Costituzione è entrato in vigore con l’approvazione referendaria della legge costituzionale 3 del 2001. In detto articolo viene sancita la dignità costituzionale dell’autonomia scolastica.

[2]  Su Notizie della scuola, Napoli 1/15 gennaio 2005.

[3] Giancarlo Cerini, Non solo schede, su Notizie della scuola, Napoli 1/15 gennaio 2005. Sempre nello stesso interessante volumetto si veda anche il contributo di Mariella Spinosi, La ‘nuova’ valutazione nella scuola della Riforma.

[4] Literacy letteralmente vuol dire “saper leggere e scrivere”, in realtà con quel concetto si intende la capacità di utilizzare le proprie competenze in ogni contesto.

[5] P.I.S.A.: Programme for International Student Assessment.

[6] Ermanno Puricelli ha pubblicato più di un interessante intervento sull’argomento: segnalo qui Obiettivi formativi e competenze, sul n° 11 di Scuola e Didattica del 15 febbraio 2003. Tutta la produzione scientifica di Puricelli dell’ultimo periodo è rintracciabile sul sito della scuola da lui diretta, che è l’Istituto comprensivo di via dei salici a Legnano (www.icsviadeisalici.it). Sull’argomento si può vedere anche il mio Le competenze a scuola (su www.distrettiformanti.it, 2004).

[7] Si veda la comunicazione inviata il 12 ottobre 2004 dall’INVALSI a tutte le scuole italiane e si consulti il sito www.invalsi.it . Dubbi di varia natura sulle prove INVALSI in via di redazione si possono trovare in E intanto l’INVALSI di Laura Gianferrari, su Notizie della scuola, Napoli 1/15 gennaio 2005

[8] Chiara Croce Finalità e struttura del programma OCSE-PISA, pubblicato sul ° 16/17 del 2002 della rivista ITER.

 

 

[9] Tutto questo compare sia nel sistema disegnato dal Ministro Luigi Berlinguer nel Regolamento sull’autonomia (D.P.R. 275/99), sia nel sistema disegnato dal ministro Letizia Moratti (Dl.lgs n° 59/2004), sia nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro siglato il 24 luglio 2003 e che raccoglie almeno dieci anni di contrattazioni nazionali.

[10] Legge 5 giugno 1990, n. 148, art. 5, comma 5: “Nei primi due anni della scuola elementare, per favorire l’impostazione unitaria e predisciplinare dei programmi, la specifica articolazione del modulo organizzativo di cui all’articolo 4 è, di norma, tale da consentire una maggior presenza temporale di un singolo insegnante in ognuna delle classi”.

 

[11] Legge 5 giugno 1990, n. 148, art. 5, comma 3: il direttore didattico assegna gli ambiti disciplinari “avendo cura di garantire le condizioni per la continuità didattica, nonché la migliore utilizzazione delle competenze e delle esperienze professionali, assicurando, ove possibile, una opportuna rotazione nel tempo”.

[12] Quis custodiet ipsos custodes?Chi sorveglierà i sorveglianti? Giovenale. Interessante anche la sua variazione: Sed quis custodiet ipsos custodes?, con il “ma” iniziale che tende ad annullare tutto quanto detto in precedenza.