Maremoto, insegnanti ne parlino a scuola

Parlarne ma soprattutto far parlare loro, i più piccoli, dell’immane tragedia che ha sconvolto il sud-est asiatico, a cui hanno assistito attraverso le immagini proposte dai media, che certamente possono averli traumatizzati, scatenando in loro ansie e paure come quella del mare. Alla vigilia della riapertura delle scuole dopo la lunga pausa natalizia purtroppo contrassegnata dalla catastrofe di Santo Stefano, è questo il compito che spetta agli insegnanti che, al fianco dei genitori, devono aiutare, attraverso il dialogo, i bambini a far emergere ed elaborare la tragica esperienza che, seppure vissuta indirettamente, li ha comunque segnati. Su questo sono d’accordo gli esperti.

Sui banchi, come a casa, la questione va affrontata, secondo Piero Lucisano, professore di pedagogia all’università La Sapienza di Roma, e Maria Rita Parsi, psicologa e presidente della “Fondazione Movimento Bambino”. “Sicuramente a scuola gli insegnanti – ha spiegato Lucisano – devono parlarne ma soprattutto far parlare i bambini cercando di aiutarli a rielaborare l’esperienza, la paura e l’ansia (le immagini del mare che si solleva e porta via ogni cosa possono scatenare nei più piccoli per esempio la paura del mare) e a stimolare in loro un atteggiamento positivo nel senso che loro stessi possono contribuire nel proprio piccolo a fare qualcosa di utile”. Devono, ha aggiunto, “aiutarli ad esprimere, a tirar fuori quello che hanno percepito e poi tentare, per quanto possibile, di rassicurarli, spiegando che è possibile ricostruire, collaborare. Ma allo stesso, gli insegnanti – ha sottolineato – devono però stare attenti a non riproporre il loro vissuto d’ansia e astenersi da letture apocalittiche o moralistiche”. Certamente, secondo il pedagogista, “il modo in cui è stata illustrata la tragedia nei media non ha tenuto conto dei traumi che poteva provocare nei bambini. Loro, per quanto abituati ai film, questa volta si sono trovati di fronte alla realtà… Ad un evento che a volte è stato anche spettacolarizzato”. “Uno studio svolto in seguito alla strage in una scuola americana – ha proseguito Lucisano – ha dimostrato come i bambini che vi hanno a lungo assistito sono stati solo di poco meno traumatizzati dei bambini che invece hanno vissuto l’esperienza. Molto traumatici sono poi anche i messaggi dei bambini rapiti, sfruttati. Il rischio è che si crei una paura generalizzata nei confronti del mondo degli adulti”.

Parlare di quanto accaduto nel sud-est asiatico è un compito che spetta “con serenità e attenzione anche agli insegnanti”, ha detto Parsi, spiegando che sono “infinite le paure scatenate nei bambini da questo tragico evento. Faranno bene a parlarne e a lavorare su questo. Molti bambini hanno sofferto, molti sono rimasti impressionati, molti si sono coinvolti in quanto hanno visto. Il trauma indiretto non è da sottovalutare. Molti sono rimasti traumatizzati dalle immagini”. Con quali conseguenze?

“Lo scatenarsi di grandi ansie, incubi notturni, paura del mare”, ha risposto la psicologa, sottolineando “l’effetto mediatico: i bambini sono passati dagli scenari di guerra, massacri e decapitazioni causati dall’uomo che hanno segnato tutto il 2004 alle scene dello tsunami, all’orrore generato dalla natura. Scene di devastazione e morte portata dalla furia dell’acqua”. A suo parere, “la scuola è il luogo-ponte tra la famiglia e la società”, ha detto ricordando l’esperienza della bambina inglese che di fronte al sopraggiungere della tragedia, ricordandosi di una lezione di geografia a scuola, ha dato l’allarme e salvato molti turisti sulla spiaggia a Phuket.

“Solo la scuola, insieme ai genitori – ha concluso Parsi – può dare gli strumenti giusti, essere il mezzo che più formidabilmente aiuta ad avere un rapporto con la società positivo. Deve esserci una grande alleanza docenti-bambini”.