Crisi del calcio e ruolo della scuola

Innanzitutto una domanda: le società di calcio sono società commerciali, oppure no?
Come Marzullo che si pone una questione e si dà una risposta, diciamo di sì.
Allora, qualcuno dovrà spiegare ai tifosi italiani e agli italiani non tifosi la disparità di trattamento che lo Stato dovrebbe riservare, poniamo a una Lazio rispetto ad una Parmalat.

Con gli inciuci finanziari e gli intrallazzi bancari anche il Borgorosso Football Club potrebbe vedersela settimanalmente con Juve e Milan e partecipare alla Champions League con il Chelsea o il Real Madrid.
In un campionato amministrativamente dopato al 100% (ci siamo quasi!) i benefici reddituali, almeno sul piano dei risultati, ma si annullerebbero, nel caso di quello italiano c’è qualche squadra che, tanto per fare il bastian contrario, paga le tasse, l’irpef, gli stipendi ai giocatori e, per ironia della sorte, rischia di retrocedere.

Insomma, è chiaro che, fra doping amministrativo e doping farmacologico, non c’è differenza. E lo “Sport”, quello con la lettera maiuscola, quello che ha esaltato le folle con la lealtà, il sacrificio, lo studio di tecniche e la scoperta di talenti, si disgrega nella sua accezione “eroica” per ridursi ad una pratica di furbastri evasori con la pretesa di vedersi riconosciuta legalmente questa “virtù”.
Concepito così, lo sport non serve a nessuno, neppure ai fans più radicali:
Prova ne è la sospensione del derby romano da parte delle opposte tifoserie: della partita non fregava niente a nessuno.
Tutti i nodi sono arrivati al pettine.
Ricominciamo daccapo.

E iniziamo a dire che con lo stesso rigore con cui si condanna l’atleta per l’assunzione di sostanze proibite, si rispettino le leggi amministrative, i bilanci, le spese e le entrate.
Si riducano gli stipendi ai dipendenti e si contengano entro un 30% – 40% del bilancio di previsione, si attivino fonti di utili da una serie di servizi connessi al club: ristoranti negli stadi, negozi, utilizzo societario dell’immagine dei calciatori, si cancellino i monopoli di società di procuratori, si incentivino le scuole calcio private e di club, si obblighino questi ultimi a mandare in campo almeno due elementi provenienti dalle giovanili.

Bisogna ricostruire, senza lifting, il valore etico della pratica sportiva; esercizio che necessita di specialisti.
La scuola deve assumersene il compito e diffondere fra i giovani che il successo che ogni atleta si attende deve essere solo il frutto di sacrifici, fatti nel rispetto di se stessi e degli avversari.
Poi, se c’è un Presidente che vuole uscire dalle regole e vuole giocarsi il patrimonio personale con ingaggi da favola, incentivi, premi e scialacqui, ben venga.

Purché copri preventivamente, e in contanti, la sua magnanimità.
Si soffrirà un anno, forse due o tre, ma almeno avremmo restituito allo “Sport”, sempre quello con la lettera maiuscola, il senso che gli appartiene e lo avremmo depurato di sovrapposizioni stantie, cause di tanti mali.