Dove va la scuola italiana?

E’ molto interessante la lettera del prof. Smith, soprattutto per il modo con cui cerca di interpretare i movimenti della scuola italiana con la cultura britannica. A suo dire essa sembra una barca che procede in ogni direzione senza un vero e proprio governo. Allora verrebbe da chiedersi perché non va a sbattere? La risposta potrebbe essere semplice: perché di fatto non va, fa rumore ma non ha la marcia ingranata. Anche l’ultima legge cerca di correggere evidenti storture, ma come aveva a suo tempo sottolineato Tuttoscuola, non ha direzione. Nonostante dunque cerchi di agitarsi è fermata da un duplice ancoraggio: da una parte c’è il MIUR che ne detiene il governo, l’autonomia delle scuole italiane non è certo quella inglese, e, dall’altra, i docenti risentono ancora di una formazione accademica gentiliana, che nonostante i numerosi e contraddittori interventi, non ha mai prodotto una efficace formazione professionale, ne iniziale ne permanente.

Le risorse investite sono poche, lo dicono tutte le indagini internazionali e sono poche anche quelle che vengono destinate ai dirigenti e ai docenti. Ma forse può andar bene così un po’ a tutti, purché sia garantita l’inclusione sociale.

Abbiamo ammodernato il lessico, siamo usciti dai programmi ed abbiamo imboccata la via del curricolo ed ora siamo alle competenze, ma sono ancora le linee guida del ministero a fare l’andatura. Secondo la scuola inglese dietro a queste parole ci sono politiche che orientano i diversi istituti autonomi, che a loro volta intervengono sugli operatori e le infrastrutture di supporto.

Ci viene proposto di riconciliare la scuola con la vita, suggerimento importante se teniamo conto che le differenze sociali tornano a evidenziarsi  e sempre più i giovani manifestano disagi di vario genere e tendono ad abbandonare il loro percorso formativo. La percezione che si debba agire sulla motivazione e sul sostegno agli apprendimenti è diffusa, ma manca la necessaria flessibilità dei curricoli che poi sfocia nell’autonomia delle scuole e un’adeguata formazione dei docenti. A questi sforzi spesso non contribuiscono nemmeno le famiglie con le quali è necessario rispolverare il “patto di corresponsabilità educativa”.

La scuola deve essere riconciliata con il proprio territorio, si preoccupi di orientare prima ancora che di valutare, costituisca un “presidio pedagogico” nel territorio stesso e collabori al suo sviluppo, in cui valorizzare una rete di agenzie educative, dalle famiglie, alle imprese, passando per l’associazionismo, in modo da promuovere una cittadinanza attiva, oggi che il nostro tessuto sociale è sempre più interculturale. In tale quadro, d’accordo con Smith, occorre stimolare un metodo di lavoro fondato sulla ricerca-azione.

A scuola diminuisce la funzione di mediazione informativa e deve crescere quella di analisi critica delle informazioni e quindi i giovani si devono affrontare le fonti direttamente come avviene nei  rapporti con il mondo del lavoro.

La maggiore debolezza del nostro sistema è sicuramente la scuola media, che a buon diritto potrebbe chiamarsi così, perché è uno snodo importante sia per quanto riguarda la crescita della persona, sia per la costruzione di progetti di vita e di lavoro. Il nome oggi la porta verso il secondo ciclo, mentre i risultati la ributtano indietro con un elevato rischio di abbandono.

La cosa che sembra più sicura è quella di confermare un primo ciclo di scuole che potremmo chiamare di base, di cui le indicazioni nazionali del 2012 sono un efficace indirizzo, ma già qui sorgono le prime incertezze organizzative, cioè la costruzione di “istituti comprensivi” che garantiscano una efficace continuità evolutiva, ma che sono realizzati a macchia di leopardo, e che dovranno essere rivisitati per effetto del recente decreto relativo al percorso da 1 a 6 anni. La cosa che invece riveste una maggiore problematicità è il ritorno all’inserimento precoce nel mondo del lavoro. L’azienda è pronta ad entrare anche qui, con persone spesso demotivate, ma che hanno bisogno di formazione generale e personale come dimostra l’insuccesso dell’apprendistato per i molto giovani.

Nell’architettura del sistema c’è chi pensa all’inutilità di questo grado di scuola, che non riesce a dare valore aggiunto, ma aldilà dell’obbligo formale di istruzione potrebbe essere necessario un rinforzo proprio qui, soprattutto se si deciderà di abbreviare di un anno la secondaria superiore. Ma sarà necessaria grande innovazione didattica, cosa per la quale il nostro governo investe molto poco e le nostre università fanno ricadere i docenti di scuola media nella tradizione disciplinarista. Una ricerca della Fondazione Agnelli (2011) aveva richiesto docenti ad hoc per tale tipo di scuola.

Leggi anche la risposta di Dario Nicoli all’articolo di Smith “Scuola: perché dobbiamo riconciliarla con la vita”.