Università: così non va

C’erano molti dei protagonisti e degli ispiratori delle politiche universitarie degli ultimi venti anni tra i partecipanti al seminario promosso dalla rivista Scuola democratica sugli “Impatti della riforma del 3+2”, svoltosi oggi, 10 luglio, nella sede dell’Upter di Roma: da Guido Martinotti a Luciano Benadusi (direttore della rivista), da Giunio Luzzatto a Roberto Moscati e ad Andrea Cammelli (direttore di Almalaurea) e ad altri studiosi come Andrea Checchi e Domenico Mauriello (Unioncamere).

In discussione un articolo di Carlo Barone, giovane sociologo dell’università di Trento, pubblicato su Scuola democratica, molto critico verso gli esiti del modello 3+2, che a suo giudizio non ha saputo risolvere né il problema della disuguaglianza delle chances di accesso e successo tra i giovani di condizione sociale diversa né quello dell’occupazione, visti gli alti tassi di disoccupazione tra i laureati (pur con squilibri) e il fatto che il sistema formativo non riesce ad assicurare le qualifiche e le competenze richieste dal mondo del lavoro, tanto che molti posti restano scoperti.

Alcuni dei partecipanti hanno provato a difendere il 3+2 spiegando che il suo insuccesso è stato causato in Italia dalla mancata implementazione del modello iniziale, dagli insufficienti finanziamenti e in buona misura anche dal mancato miglioramento qualitativo del sistema produttivo, ma tutti hanno convenuto sul fatto che l’università così com’è oggi strutturata non va: non soddisfa né le esigenze degli studenti né quelle delle imprese. Per cambiare sono state avanzate diverse proposte: stabilire un raccordo più stretto con il mondo del lavoro, sdoppiare il terzo anno della laurea triennale a seconda delle scelte successive (lavoro o continuazione degli studi), rafforzare la formazione generale nella laurea triennale facendola seguire, in alternativa alla laurea magistrale, da master di primo livello opportunamente predisposti (tenendo conto del mercato del lavoro), distinguere nettamente le teaching dalle research universities, rafforzare in termini strategici la formazione superiore non universitaria (sono stati citati gli ITS) evitando però che l’università – come è accaduto in passato – la ostacoli considerandola concorrenziale alla propria offerta.

Insomma diversificare e rendere più flessibile l’offerta, tenendo conto anche delle opportunità offerte dalla ICT. Ma questi processi di cambiamento dovrebbero essere governati con mano sicura, obbedire a una strategia, a una visione dell’istruzione superiore (universitaria e non) che è illusorio sperare che venga adottata autonomamente, o come si dice ‘dal basso’, dalle attuali università.

Per un’operazione di questa portata servirebbe un largo consenso politico e sociale che però, al momento, sembra tutto da costruire.