Per preparare al futuro la scuola deve dire addio alla bocciatura. VITA intervista il direttore di Tuttoscuola

Secondo un report del World Economic Forum, The Future of Jobs, da qui al 2020 il 30% delle competenze oggi strategiche per svolgere qualsiasi lavoro sarà soppiantato da nuove skills, diverse da quelle richieste oggi. Il 65% dei bambini che oggi iniziano le elementari, farà un lavoro che non esiste ancora. Le università ci stanno costruendo sopra le campagna di comunicazione: nella metropolitana milanese i cartelloni pubblicitari ricordano che “i dieci lavori più richiesti nel 2017, non esistevano nel 2007”. Negli Usa il 60% delle ricerche di lavoro resta aperto per più di 12 settimane e questo “buco” costa qualcosa come 800mila dollari l’anno. La prima causa è la necessità di profili più qualificati. Per affrontare il problema della disoccupazione giovanile non si può non affrontare il tema della formazione: non solo a livello universitario o di scuole professionali, ma dell’intero sistema di istruzione.  Il numero di VITA in edicola da oggi, 9 giugno, dedicato al lavoro, si concentra sui cambiamenti in atto nel mondo della formazione. Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, è uno degli esperti a cui è stato chiesto un parere. Quello che è emerso? Che per preparare al futuro la scuola deve dire addio alla bocciatura. Ecco un’anteprima dell’intervista pubblicata su Vita.

Gli esperti dicono che siamo in un momento di cambio di paradigma, che moltissimi dei lavori che oggi conosciamo spariranno a breve e che la formazione per una specifica figura professionale sarà obsoleta prima ancora che finisca il corso. Perché la scuola e la formazione devono cambiare? Solo perché – in negativo – abbiamo tanta disoccupazione giovanile e tanto mismatch?
“Il drammatico livello di disoccupazione giovanile, superiore al 40%, e la contestuale carenza di figure specializzate ricercate dalle aziende sono spie inequivocabili di un malfunzionamento che chiama in causa anche la scuola e la formazione. Il cambiamento nei processi formativi, soprattutto in quelli che formano competenze tecniche, è indispensabile proprio per le ragioni indicate nella domanda. Gli sviluppi a velocità iperbolica delle nuove tecnologie (ICT), le scoperte delle neuroscienze, della biochimica e dell’intelligenza artificiale, internet, spingono tutti in direzione della personalizzazione dei percorsi formativi e nello stesso tempo verso una dimensione sociale, cooperativa e co-costruttiva, della conoscenza. Il fatto è che, malgrado alcuni tentativi di apertura al mondo del lavoro (per esempio l’introduzione obbligatoria dell’alternanza scuola-lavoro), la scuola italiana è cambiata assai poco e comunque assai più lentamente di quanto abbiano fatto altri soggetti della vita economica e sociale, come le imprese più innovative, sia manifatturiere sia dei servizi. Bisogna rifasare la scuola con questo mondo che sta cambiando rapidamente. Abbiamo colmato alcuni gap che erano evidenti almeno 15 anni fa, ma ciò che servirebbe ora è guardare 15 anni avanti, a quali saranno le esigenze formative della società nel 2030. E saranno drasticamente diverse da quelle a cui risponde la scuola oggi”.

A suo giudizio, c’è una seria riflessione in Italia su questo cambiamento necessario e su questa ridefinizione del sistema? Si sta ragionando abbastanza e abbastanza bene su questi temi?
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Il dibattito in corso non ha ancora raggiunto la massa critica che sarebbe necessaria per spingere non tanto, o non solo, i decisori politici quanto il mondo della scuola ad attivare su larga scala processi e percorsi innovativi utilizzando fino in fondo i riferimenti normativi (che non mancano nella legge sulla Buona scuola) e le risorse disponibili per dare senso e corpo all’autonomia organizzativa, didattica e di sperimentazione delle scuole e delle loro reti. Gli obiettivi di sistema però dovrebbero essere ulteriormente precisati: la legge 107 del 2015 colma in parte alcuni gap  come quello di offrire alcuni strumenti per l’attuazione dell’autonomia delle scuole o per la formazione in servizio degli insegnanti. Ci sarà un gigantesco problema di formazione in servizio dei docenti, che dovranno operare entro modelli organizzativi rivoluzionati nei tempi e negli spazi didattici. Direi che a differenza di quanto fatto in passato, quando l’aggiornamento avveniva con un tipico movimento a cascata, top-down, si deve pensare a una forma di autoaggiornamento di massa, che si propaga per via orizzontale, sostenuto dalla Rete e da una serie di networks costituiti dagli stessi insegnanti”.

Gli strumenti messi in campo di recente – l’Alternanza scuola Lavoro, per cui la stessa Tuttoscuola ha creato un portale dedicato e propone un percorso nella propria redazione, gli ITS, la riforma della formazione professionale, la via italiana al sistema duale, il puntare molto sul learning by doing… – sono la strada giusta? Quali positività e quali criticità vede?
“Domanda complessa, il cui filo conduttore mi sembra la sottolineatura dell’importanza della dimensione esperienziale dell’apprendimento all’interno di tutti i percorsi formativi di scuola secondaria e post-secondaria (ITS). La strada è certamente quella giusta, come intuirono già alcuni decenni fa i teorici – come Torsten Huse’n e in Italia Aldo Visalberghi – dell’interazione tra unità di studio e unità di esperienza (il retroterra concettuale dell’alternanza) e della rotazione verticale delle mansioni nel corso della vita, cui è strettamente legata l’idea dell’educazione come processo permanente o ricorrente nel corso della vita. Le criticità sono quelle legate alla transizione da un modello di scuola statico, ripetitivo e gerarchizzato, come è stato storicamente il sistema scolastico italiano nella generalità dei casi, ad uno dinamico, innovativo e di effettiva “pari dignità” di tutti i suoi percorsi. La chiave di volta sarà la personalizzazione degli itinerari formativi individuali e il superamento della rigidità degli standard di apprendimento, con conseguente eliminazione dell’idea stessa di fallimento scolastico, di bocciatura“.

Come dovrebbe cambiare la formazione dei formatori?
“La prospettiva che ho delineato comporterà un gigantesco problema di formazione in servizio dei docenti, che dovranno operare entro modelli organizzativi rivoluzionati nei tempi e negli spazi didattici. Direi che a differenza di quanto fatto in passato, quando l’aggiornamento avveniva con un tipico movimento a cascata, top-down, si deve pensare a una forma di autoaggiornamento di massa, che si propaga per via orizzontale, sostenuto dalla Rete e da una serie di networks costituiti dagli stessi insegnanti. Qualcosa di simile alla fioritura delle sperimentazioni di ordinamento e struttura promosse dalle scuole negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo, ma con il grande vantaggio, consentito dalle nuove tecnologie, di poter facilmente collaborare online e offline in una logica di collaborazione e disseminazione peer to peer. La mission degli insegnanti nella nuova scuola dovrà essere chiaramente definita: dovranno certamente continuare a valutare e anche a selezionare, ma per includere e valorizzare i potenziali individuali, non più per escludere. Questo comporterà un chiarimento radicale sul valore legale dei titoli. Comunque l’elevata età media dei docenti italiani di ruolo, che non si è abbassata di molto con la stabilizzazione dei precari ex Gae e di altre categorie, fa prevedere un gigantesco ricambio della classe docente di nei prossimi 10-15 anni. Per evitare che le prossime generazioni abbiano insegnanti obsoleti, stanchi, desiderosi di andare in pensione più che di adeguare la loro didattica alle esigenze degli studenti, occorre fare in modo di inserire un consistente e crescente numero di docenti giovani, superando le già oggi notevoli difficoltà di reperimento per le classi di concorso scientifico-tecniche, capaci di soddisfare le esigenze di una popolazione giovanile multimediale, multietnica e sempre più immersa in un universo informativo nel quale il confine tra educazione formale e informale diventa sempre più labile. Ma la mission degli insegnanti nella nuova scuola dovrà essere chiaramente definita: dovranno certamente continuare a valutare e anche a selezionare, ma per includere e valorizzare i potenziali individuali, non più per escludere. Questo comporterà un chiarimento radicale sul valore legale dei titoli, che potrà anche essere mantenuto, ma dovrà essere accompagnato da una certificazione delle competenze effettivamente possedute dal diplomato, anche con riferimento ai diversi campi disciplinari. Se un diplomato avrà scarse competenze in matematica, per esempio, questo dovrebbe comparire nella sua certificazione, e gli precluderebbe la scelta di determinati corsi universitari, da Scienze a Ingegneria. Lo stesso se la valutazione certificata sarà scadente nelle discipline dell’area umanistica: in tal caso, niente facoltà di lettere”.