Poletti: Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico…

Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico”.  Lo ha affermato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti lo scorso 26 novembre in occasione della apertura di Job&Orienta alla fiera di Verona. “È meglio laurearsi con un 97 a 21 anni”, ha poi aggiunto specificando poi –  di fronte all’ondata di proteste e di accuse dei sindacati e delle organizzazioni giovanili di sinistra – di non aver “mai pensato che i giovani italiani non siano impegnati”, ma di ritenere che “l’età media avanzata riduce le opportunità”.

Non ha convinto Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil, che ha definito le sue affermazioni “sconcertanti e assolutamente diseducative, perché figlie della falsa ideologia della conoscenza ‘utile’ e dell’illusione di un mondo del lavoro, delle imprese, accogliente e flessibile”.

Eppure la sortita del ministro Poletti non è apparsa ingiustificata: giusto due giorni prima l’edizione 2015 di Education at a Glance (EaG) aveva evidenziato la bassa percentuale di giovani italiani che si iscrive all’università e l’inesistenza di vere alternative ad essa, tali non essendo per ora gli ITS. Non solo: la maggior parte dei pochi italiani che si iscrivono all’università non si ferma alla laurea triennale, considerandola (come in effetti è) non utile per il lavoro, ma continua per almeno altri due anni, che si aggiungono all’anno in più (13 anziché 12 anni) richiesto agli studenti del nostro Paese per completare gli studi prima dell’università.

Esiste dunque per l’Italia, come l’Ocse segnala almeno dai tempi del ministro Berlinguer (1996-2000), un problema di eccessiva durata della scuola e di mancata articolazione degli studi superiori, universitari e non, con diverse uscite verso il mondo del lavoro. Se Poletti intendeva porre questo complesso di problemi parlando – forse un po’ ellitticamente – della variabile ‘tempo’, ha fatto bene. C’è solo da sperare che non ci si fermi allo scambio di pre-giudizi.