Parità scolastica: senza oneri e senza onori. Riflessione disincantata sull’art. 33 Cost.

Di Simone Bergamini*

La questione dell’autonomia scolastica riecheggia a più riprese nel dibattito politico pubblico degli ultimi tempi, anche e soprattutto in relazione a numerose pubblicazioni e interventi in occasione di due ricorrenze significative sul tema: da un lato i vent’anni appena trascorsi dal DPR n. 275/1999 che regolamenta e codifica l’autonomia stessa, dall’altro i vent’anni ricorrenti dall’approvazione della legge n. 62/2000 sulla parità scolastica.Trattasi con tutta evidenza dei capisaldi del sistema educativo italiano, costruito appunto sui pilastri dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e formative, della parità tra scuole statali e non statali e dell’effettiva libertà di scelta educativa delle famiglie, anche mediante i percorsi dell’istruzione e della formazione professionale.

La discussione sullo stato di salute e di attuazione della piena ed effettiva autonomia scolastica ne evidenzia da tempo la sostanziale incompiutezza, se non sotto il profilo formale, sicuramente sotto quello sostanziale. La genesi culturale, politica e legislativa che ha introdotto l’autonomia scolastica è ben nota ed essa ha portato a innegabili passi avanti nella direzione della valorizzazione della figura del dirigente scolastico, degli organi collegiali, del sistema di valutazione e autovalutazione e dell’autonomia didattica. Tuttavia la sua completa e definitiva attuazione non può prescindere da scelte che conducano alle scuole autonome, più che all’autonomia scolastica intesa come concetto normativo e cornice concettuale entro cui esse si muovono. Le scuole autonome devono poter innovare la didattica per una scuola realmente inclusiva, devono poter formare e scegliere i docenti più adeguati, valorizzandone così la professionalità e la carriera, devono poter costruire vere reti territoriali rafforzando il nesso tra scuola, lavoro e società. Infine esse devono essere dotate di effettiva autonomia finanziaria e gestionale. Ma soprattutto la vera autonomia scolastica non può prescindere dalla piena libertà di scelta educativa in capo alle famiglie.

La presenza delle scuole paritarie nel nostro Paese, di cui il 70% sono scuole dell’infanzia, è andata progressivamente riducendosi per svariate ragioni, di cui la più rilevante è rappresentata certamente dai costi che ricadono sulle famiglie. La questione relativa al sistema paritario d’istruzione è esplosa in tutta la sua drammaticità a causa dell’emergenza sanitaria da Covid 19, presto trasformatasi in crisi socio-economica. Si stima che l’emergenza Covid-19 rischi di causare la chiusura di circa il 30% delle scuole paritarie, sia laiche che religiose, a fronte del mancato versamento delle rette da parte delle famiglie, a loro volta colpite dalla crisi. Di converso, gli istituti paritari non hanno la possibilità di usufruire degli ammortizzatori sociali per i propri docenti, dal momento che il servizio educativo ha continuato e continuerà, almeno in parte e con modalità in fase di definizione alla luce delle linee guida ministeriali di cui tanto si sta discutendo, a essere garantito a distanza. Il problema è particolarmente sensibile perle scuole dell’infanzia, atteso che l’istruzione parificata è più rilevante proprio in tale segmento, in cui le stime parlano di metà delle scuole paritarie a rischio chiusura. Non si tratta evidentemente di una mera questione privata, poiché famiglie costrette a cambiare le proprie scelte in materia di istruzione graverebbero su un settore pubblico già sotto stress per via della pandemia.

La conseguenza immediatamente percepibile è che gli studenti provenienti dalle scuole paritarie destinate a chiudere dovrebbero essere assorbiti dalle scuole statali già dal prossimo settembre, con inevitabili ripercussioni sui costi del sistema scolastico. Guardando ai numeri, secondo i dati OCSE del 2019, l’Italia spende, per studente, circa 7000 euro per l’istruzione pre-primaria, 7400 per quella primaria e 8500 per quella secondaria. Le scuole paritarie beneficiano di circa 500 euro di contributo per studente e il resto è a carico delle famiglie, che usufruiscono anche di una detrazione Irpef del 19% fino a 800 euro. Peraltro il dibattito sulle questioni economiche si è recentemente riacceso a seguito di interventi e discussioni, da parte soprattutto di alcuni parlamentari, sull’opportunità dell’introduzione del costo standard per studente, argomento che meriterebbe di essere approfondito e valutato nel contesto più generale di riforma della scuola post emergenza. E’ quindi oltremodo evidente che le scuole paritarie permettano un risparmio considerevole alle casse pubbliche.Così stando le cose, lo Stato avrebbe soltanto due scelte: aumentare di molto la spesa relativa all’istruzione oppure diminuire la spesa pro capite, già minore della media OCSE, anche se considerare il costo marginale di un singolo studente risulterebbe riduttivo in epoca post Covid. Infatti, tale spesa ipotetica per studente aggiuntivo non tiene conto di tutte le variabili imposte dalle norme sul distanziamento sociale, con la necessità di trovare spazio per nuove aule, più banchi ecc., in ossequio a nuove regole che vengono trasfuse nell’ennesimo protocollo che le Scuole si troveranno a dover approntare e rispettare pedissequamente.

In un simile clima post bellico, per utilizzare un’espressione tanto inflazionata quanto infelice fatta propria da buona parte dei nostri governanti, si ripropone nuovamente l’annosa questione relativa all’unico sistema nazionale di istruzione e al rapporto tra scuola pubblica e privata. Appare paradossale, ma il risultato di 4 mesi di lockdown scolastico, condito da una buona dose di autoreferenzialità e autocelebrazione della didattica a distanza, sembra aver dato nuova linfa ai detrattori integerrimi del sistema nazionale post legge 62/2000. Alla luce della carenza di provvedimenti specifici a sostegno del sistema delle scuole paritarie, eccezion fatta per i 300 milioni stanziati da ultimo in sede di conversione del Decreto “Rilancio” – seppur in un clima generale di bulimia assistenzialistica che ha portato il Governo a prevedere misure a sostegno della pressoché totalità di categorie sociali ed economiche nell’ambito dei Decreti “Cura Italia”, “Liquidità” e “Rilancio” -da più parti viene riproposto il tema del ruolo delle scuole non statali e fioriscono dibattiti e approfondimenti sul contenuto e sull’effettiva portata dell’art. 33 della Costituzione. Esso, che contiene il principio della libertà di insegnamento, in attuazione del principio fondamentale “culturale” di cui all’art. 9, fonda il diritto di enti e privati di istituire scuole ed istituti di educazione, a condizione che ciò avvenga senza oneri per lo Stato. Sul significato di tale ultima locuzione si sono sempre contrapposte le teorie di chi deduce che l’istituzione di scuole non statali non dovrebbe comportare oneri economici per lo Stato e di chi ritiene, invece, che il divieto non vada inteso in senso assoluto. In realtà, nei fatti, i vari governi, a prescindere dall’orientamento politico, sono da sempre intervenuti sia per finanziare scuole in difficoltà sia per sostenere i costi della creazione di istituti privati laddove non esistano scuole statali.

Ciò detto, una riflessione seria e disincantata, scevra quindi da qualsivoglia pregiudizio ideologico o animosità politica, non può prescindere dall’interpretazione letterale del disposto costituzionale. Del resto lo studio e l’approfondimento della Costituzione, in tempi recenti giustamente fatto oggetto di un vero e proprio obbligo scolastico nell’ambito della materia “Cittadinanza e Costituzione”, verificato anche in sede di maturità, deve partire proprio dalla lettera della legge, per poi ricavarne il senso ultimo e profondo, a maggior ragione quando si abbia a che farecoi principi costituzionali. Trattasi di operazione ineludibile e che risponde a criteri di onestà intellettuale, prima ancora che al rispetto dovuto alla fonte super primaria del nostro ordinamento.

L’art. 33 esprime incontestabilmente un principio di libertà, prima di tutto educativa, quindi organizzativa e gestionale. Lo spirito con cui i Padri Costituenti affrontarono il dibattito sulla libertà educativa in seno all’Assemblea deve guidare l’osservatore e la comunità tutta, privilegiando l’approccio olistico e assecondando l’interpretazione teleologica dei Costituenti stessi. L’intervento del liberale costituente Corbino, ripreso da alcuni contributi recenti sulla questione, si rivela illuminante per i fini ermeneutici che qui interessano: “Noi non diciamo che lo Stato non potrà mai intervenire a favore degli istituti privati; diciamo solo che nessun istituto privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello Stato. È una cosa diversa: si tratta della facoltà di dare o di non dare”.

Che nessuna scuola privata possa essere istituita con il contributo iniziale determinante pubblico e con la garanzia di una contribuzione statale che intervenga in caso di difficoltà è una cosa; ben altro è sostenere l’illegittimità ovvero l’inopportunità di forme di sostegno alle scuole private, a maggior ragione per quelle che hanno ottenuto la parifica e rispondono a tutti i criteri imposti dalla normativa sulla parità stessa. In un periodo storico come quello attuale, in cui si discute ostinatamente di riforme strutturali e delle modalità migliori per modernizzare e sburocratizzare l’Italia, liberando le energie dei settori nevralgici e incentivando forme virtuose di partenariato privato/pubblico, appare francamente anacronistica la discussione, sterile prima ancora che fine a sé stessa, sull’opportunità di forme di sostegno, non necessariamente e non solo economiche, a favore delle scuole private. Esse, è bene ricordarlo, indipendentemente dal carattere religioso o laico svolgono un servizio di pubblica utilità e nella pressoché totalità dei casi sono enti e persone giuridiche senza scopo di lucro, spesso organizzate in forma di imprese e cooperative sociali. La stigmatizzazione del settore, ad opera di una parte fortemente ideologizzata anche della politica attuale, esula colpevolmente dalla realtà delle cose, in cui la maggior parte dei gestori di tali istituti è mosso dal fine ultimo dell’amore per l’educazione e la formazione a tutto tondo, senza alcun tornaconto economico e personale.

Il fine ultimo dell’introduzione del suddetto principio nel nostro ordinamento è proprio la garanzia della libertà e del pluralismo educativo, fermo restando che “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Nel rispetto di tale spirito costituente, già la legge sulla parità scolastica, configurando un servizio pubblico di istruzione in cui lo Stato è sia regolatore che gestore e prevedendo una pluralità di soggetti che offrano servizi educativi, ha sollevato il velo sulla vera e unica questione giuridica degna di attenzione e meritevole di essere sviscerata con spirito critico e imparziale: la differenza tra pubblico e statale. Che pubblico non corrisponda a statale è cosa ovvia oltre misura, prevedendo legittimamente il nostro ordinamento soggetti che svolgono un servizio pubblico pur non essendo statali.Urge pertanto intervenire per dare nuova linfa e piena attuazione alla legge 62/2000, al fine di valorizzare il servizio pubblico di istruzione assicurato anche da soggetti diversi dallo Stato e che attuerebbe quel sacrosanto principio di sussidiarietà, presente nella nostra carta costituzionale,che rappresenta il punto di riferimento fondamentale per il passaggio dal Welfare State alla Welfare Society.

In difetto l’intento preminente dei Padri Costituenti, volto a costituire un sistema scolastico che garantisca l’istruzione per tutti nella piena libertà di scelta educativa, resterebbe solo parzialmente raggiunto nonostante decenni di riforme scolastiche, senza oneri ma soprattutto senza onori per chicchessia.

*docente di un istituto secondario.