Non è tempo di piagnistei, ma di un nuovo modo di fare scuola

Mi è capitato di rileggere giorni fa un testo di Claudio Giunta, saggista e docente di letteratura italiana. Riferiva di aver accanto alla scrivania un raccoglitore che aveva sul dorso la scritta “PIAGNISTEI” e raccoglieva scritti di autori illustri e assai competenti che avevano in comune il generale rammarico per tutto ciò che rientrava nella categoria “crisi” o “fine”: fine dell’umanesimo, crisi dei sistemi pedagogici, fine dei percorsi formativi tradizionalmente strutturati e così via.

Nel medesimo raccoglitore un posto d’onore era dedicato alla sottocategoria “DISAGIO DIGITALE” all’interno della quale veniva affrontato dalle più svariate angolazioni sempre il medesimo dilemma: come può una cultura umanistica di indubbio spessore come la nostra, tramandata per secoli da lezioni cattedratiche, sopravvivere ad un modello di società dominato dalla multifunzionalità e improntato all’informazione immediata?

La maggior parte dei docenti italiani sono stati formati ma soprattutto continuano ad essere formati esattamente con questo modello; se non stupisce che la generazione degli insegnanti cinquantenni fatichi a prendere le distanze da un sistema che fa davvero parte del suo DNA, trovo francamente disorientante che la generazione dei neo laureati si inserisca in questo stesso modello in maniera tanto “docile”.

Il sistema scuola presenta quindi tutti i suoi chiaroscuri:

– da un lato una società in frenetico movimento, una dimensione socio culturale che tende ad abbandonare sempre più l’idea di comunità per avvicinarsi a quella di sciame, costituito da tanti individui che si muovono insieme sì, ma non animati da uno spirito comune, non sorretti da ideali e forze condivise (l’immagine è di Byung-Chul Han, la trovo di una lucidità esaustiva e disarmante);

– dall’altra una scuola che tende a riproporsi uguale a se stessa, in modo anacronistico sì, ma molto rassicurante.

Tutto già detto. Ampiamente dimostrato. Ma altrettanto ampiamente perpetuato.

E poi, come spesso succede nella storia dei grandi sistemi, accade qualcosa.
Normalmente i cambiamenti avvengono lentamente, per stadi; in alcuni periodi gli step si succedono in maniera quasi impercettibile.
Salvo improvvise accelerazioni dovute a cause esterne e, di solito, assolutamente imprevedibili.
Inseriamo in quest’ultima casistica la pandemia di cui il paese è tuttora vittima e che rappresenta una sorta di strappo nel quotidiano di ciascuno.

La scuola non fa eccezione.

L’apparente disorientamento nel quale è stata precipitata ha prodotto due effetti principali: si sono improvvisamente accesi i riflettori su un sistema scuola che si muove da tempo con mille velocità diverse, attribuibili ad una serie di variabili infinite, divenute spesso alibi; ha catapultato i docenti nella dimensione della didattica a distanza, forzatamente digitale.

Personalmente auspico una presa di posizione decisa, del tipo: avevamo un problema, ne abbiamo fatto un’opportunità.

Non credo sia possibile tornare indietro e probabilmente sarebbe scriteriato provarci.

Abbiamo avviato processi che saranno preziosi per costruire una scuola che, comunque vada, si muoverà su binari nuovi, attraversando scenari mai ipotizzati; abbiamo messo a punto modelli diversi di didattica a distanza alla quale abbiamo reso onore nella consapevolezza che non si tratta solo di risposta ad un’emergenza ma che può essere risorsa preziosa in un sistema scuola nel quale la complessità è tratto distintivo; abbiamo risposto (magari obtorto collo) alla domanda di molti studenti che nella didattica digitale trovano canali comunicativi e di apprendimento più vicini ai propri stili cognitivi.

Si parla per settembre di turnazione e di alternanza tra didattica in presenza e DAD; è ipotizzabile che il tempo scuola non sarà lo stesso. La certezza è che la modalità del fare scuola non può essere la stessa. In un panorama che tutto sarà fuorché definito  e stabilizzato, sarà quanto mai necessario fare delle scelte: la didattica per competenze non può più essere un’opzione, dev’essere la quotidiana risposta ad un bisogno di sapere sempre più trasversale; l’approccio didattico deve essere duttile, multidisciplinare e improntato alla relazione, a tutti i livelli; la didattica digitale non può più essere archiviata nello schedario “disagio”, men che meno in quello “piagnistei”; siamo chiamati infine a definire con chiarezza gli obiettivi irrinunciabili delle nostre progettazioni e poi a prendere il largo lasciandoci guidare dai bisogni educativi e formativi degli studenti.

La creatività di molti docenti in questo frangente è stata a tratti eroica, a tratti commovente: non fermiamoci ora. Davvero, non è tempo.