Milleproroghe: concorsi Università chiusi ancora agli esterni

E’ stato criticato l’emendamento al c.d. Milleproroghe in conseguenza del quale, in buona sostanza, slitterà di due anni la necessità di concorsi aperti nelle nostre Università. A dicembre di quest’anno si sarebbe concluso, infatti, il periodo transitorio, originariamente previsto in sei anni, durante il quale è stato consentito agli Atenei di avvalersi della deroga alle normali modalità di accesso e procedere a concorsi interni, riservati a ricercatori a tempo indeterminato e a professori associati, fino alla metà dei posti disponibili. Ancora una volta si è sottolineato il privilegio degli interni rispetto agli aspiranti esterni, ora parzialmente frustrati nelle loro legittime aspettative fino al 2020. Ma, al di là di questo, si è posta anche in luce l’incoerenza di una scelta che contraddice l’indirizzo strategico, dichiarato con tanta enfasi e determinazione, in occasione dell’istituzione delle “cattedre Natta”, di un’università aperta, alla ricerca, senza troppi intralci burocratici, dei docenti più qualificati, selezionati con procedure straordinarie e snelle, e attratti anche dalla possibilità di stipendi appetibili e concorrenziali.    

Confrontando le due norme e le filosofie che sottintendono, appare evidente la sbandata da un percorso che sembrava intrapreso con convinzione e determinazione a dispetto delle tante critiche e resistenze che hanno accompagnato quell’idea. Tradotto in legge il disegno, di cui peraltro sono stati definiti finora soltanto i contorni, cede il passo e si scontra con le esigenze più concrete e immediate di tanti ricercatori che da molto tempo operano fattivamente e positivamente negli atenei e che ritengono di meritare un qualche riconoscimento dell’impegno e della professionalità acquisita. Il profilo ideale si scontra e cede all’impatto con una realtà che non può essere disconosciuta o trascurata. La possibilità di accedere ai ruoli o di proseguire nella carriera accademica per tanti giovani, o non più tali, che per anni hanno consentito con la loro opera il funzionamento e la vitalità di strutture destinate altrimenti a sclerotizzarsi, merita indubbiamente comprensione, rispetto e risposta adeguata. Pari considerazione deve tuttavia riservarsi anche alla caratterizzazione di un’Università che si muova senza vincoli o condizionamenti, perseguendo l’assoluta qualità, della quale concorsi aperti e partecipati costituiscono la premessa e la garanzia.

Come contemperare queste diverse e opposte esigenze? Qual è la soluzione più giusta? Si ripropone un problema che ricorre di continuo nel pubblico impiego e che affatica e tormenta decisori politici e giudiziari e che, in tutti i casi, si risolve nel tamponare le emergenze e nel rinvio di decisioni risolutive che siano espressione di scelte  strategiche convinte e determinate.

La vicenda che commentiamo ne è un esempio. La norma consente ma non impone la riserva alle università. Si demanda dunque su di esse un’opzione che dovrebbe invece essere, per il suo rilievo nella determinazione delle priorità dei contrastanti interessi, esclusivamente politica. E si rinvia ancora una soluzione che dopo nove anni di rinvii meriterebbe forse di essere ripensata definitivamente.