MA I NODI VANNO SCIOLTI

La riforma Moratti ha superato la prova a livello politico e legislativo, rinviando alla fase dell’attuazione la verifica delle numerose incognite contenute nel testo. Pari dignità dei percorsi del secondo ciclo, articolazione degli indirizzi liceali, valutazione didattica e di sistema, alternanza scuola-lavoro. Ecco alcuni dei problemi ai quali il governo dovrà dare risposte adeguate con l’emanazione dei decreti legislativi e dei regolamenti, sui quali influiranno anche le eventuali ulteriori novità in materia di "devolution". Il rischio di un neocentralismo in chiave regionalista a scapito dell’autonomia delle scuole.

La legge 28 marzo 2003, n. 53, è stata approvata dal Parlamento a tempo di record: meno di due anni dall’inizio della legislatura, ma poco più di un anno dalla presentazione del disegno di legge. Solo la riforma della scuola media del dicembre 1962 fu approvata in meno tempo (9 mesi), ma era anche uno dei due impegni programmatici chiave – l’altro fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica – assunti dal primo governo di centro-sinistra, formatosi nel marzo di quell’anno.
Questo significa che – a differenza di quanto accadde al governo Ciampi-Jervolino nel 1994 per l’autonomia e al governo Amato-Berlinguer-De Mauro nel 2001 per la riforma dei cicli – il tempo per dare attuazione alla riforma questa volta ci sarà, sempre che la legislatura arrivi alla sua conclusione naturale (maggio 2006). Anche se il Governo dovesse utilizzare tutti i 24 mesi previsti dalla legge per l’emanazione degli ultimi decreti legislativi, arrivando all’aprile 2005, si sarebbe ancora in tempo per vederne gli effetti operativi sull’anno scolastico 2005-2006, quando, se tutto andrà bene, dovrebbero entrare in vigore i nuovi ordinamenti del secondo ciclo sia sul versante liceale che su quello del sistema di istruzione e formazione professionale.
Ma la solida maggioranza di cui disponeva il governo sia alla Camera che al Senato, se è servita a far passare la legge, ha dovuto rinviare alla successiva fase della sua attuazione lo scioglimento di una serie di nodi problematici di non facile soluzione, sia sul piano politico che su quello tecnico. Le storiche difficoltà incontrate dalle riforme scolastiche in Italia sembrano così essersi spostate dal piano parlamentare-legislativo (luogo della "non-decisione politica") a quello della attuazione e implementazione della legge, affidata al governo. In questo articolo ne passeremo in rassegna alcuni, sforzandoci di cogliere la natura dei problemi e di individuare le alternative in campo.

La "pari dignità" dei percorsi

La legge stabilisce alcuni principi e fissa regole a salvaguardia della "pari dignità" di tutti i percorsi del secondo ciclo, che è nel suo insieme "finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire, e la riflessione critica su di essi". In questo quadro è "assicurata e assistita" la possibilità di passare da un indirizzo a qualunque altro con il sostegno di "apposite iniziative didattiche" (i Laboratori per il recupero e il sostegno all’apprendimento, LARSA), potendo utilizzare nel nuovo percorso i "crediti" già acquisiti.
Tuttavia la diversa durata dei licei (5 anni) e dei percorsi professionali (3+1, o anche soltanto 3 anni), e la maggiore consistenza e visibilità – dovuta anche ad una certa continuità con la tradizione – dei licei, rischiano di rendere del tutto teorica la "pari dignità" del canale professionale, al cui interno confluirà fra l’altro la formazione professionale regionale, in molti casi poco qualificata, soprattutto nel centro-sud.
Per essere visibile e credibile, la "pari dignità" dovrebbe fondarsi su una larga intesa interistituzionale tra lo Stato e le Regioni finalizzata alla costruzione di un canale professionale forte e competitivo anche dal punto di vista strutturale, tale da interessare almeno il 45-50% della popolazione scolastica. L’accordo dovrebbe prevedere quindi – come peraltro suggerisce un "ordine del giorno" approvato dal Parlamento e accettato dal Governo – che la maggior parte degli attuali istituti tecnici e professionali sia messa in condizione di confluire nel costituendo canale professionale.
Per fare questo, naturalmente, occorre che per vari aspetti si stabilisca una ragionevole continuità (come sarà per i licei) tra l’attuale assetto dell’istruzione tecnica e professionale e il "sistema di istruzione e formazione professionale" introdotto dalla riforma, e che i piani di studio dei futuri licei e istituti siano progettati in modo tale da renderli comparabili e compatibili, soprattutto nei primi due anni, al fine di rendere possibili e credibili i "passaggi". Occorrerebbe inoltre prevedere in via ordinaria l’organizzazione del quinto anno per il conseguimento della "maturità professionale", senza alcuna deferenza o subordinazione al quinto anno del modello liceale.
Andrebbero inoltre date garanzie ai dirigenti scolastici e ai docenti del canale professionale sul mantenimento di uno stato giuridico comune con quello degli altri dirigenti e docenti, che consenta la mobilità tra le cattedre corrispondenti.

Percorsi liceali e professionali: serve un criterio di identificazione

Nella precedente legislatura la legge n. 30/2000, ora abrogata, prevedeva l’articolazione della scuola secondaria in cinque aree, e di ciascuna area in più indirizzi, tutti denominati "licei". Per la formazione professionale, non considerata come un’alternativa al sistema dei licei, rimaneva poco spazio, essendo la sua funzione sostanzialmente ancillare nei confronti della scuola: la cura dei drop-out di quest’ultima, l’orientamento professionale, gli stages.
Di fatto i sei indirizzi liceali compresi nell’area "tecnica e tecnologica" (gestione e servizi per: la produzione di beni, l’economia, l’ambiente e il territorio, le risorse naturali e agroindustriali, la persona e la collettività, il turismo) costituivano lo sbocco naturale per la quasi totalità degli istituti tecnici e professionali, non essendo in alcun modo immaginabile la loro allocazione e un loro ruolo nel settore della formazione professionale, marginalizzato anche dalla prospettiva dell’innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni.
Assai diversa è l’opzione di fondo che sta alla base della riforma Moratti, che considera la formazione professionale come un "sistema" organico e continuo, parallelo rispetto a quello dell’istruzione scolastica, e perciò rivolto, con dichiarata pari dignità, agli studenti che hanno completato il ciclo primario (di qui la soppressione della legge n. 9/1999 sull’obbligo scolastico).
Ma con quale criterio è possibile stabilire se un determinato percorso di studi ha caratteristiche liceali o professionali? Come re-indirizzare gli attuali istituti tecnici e professionali? A quali condizioni essi possono diventare "licei"? La legge su questo punto non entra in dettagli. Il problema è però di vitale importanza, e dovrà presto essere affrontato con i decreti legislativi e i regolamenti ai quali la legge rinvia.
Premesso che tutti i piani di studio del secondo ciclo, liceali e professionali, dovrebbero comunque contenere un nucleo di conoscenze e competenze-chiave comune, come raccomandato da autorevoli organizzazioni internazionali (OCSE, UNESCO, UE), il criterio di identificazione della "vocazione" dei diversi percorsi formativi potrebbe fondarsi sull’analisi di alcuni elementi peculiari che li caratterizzano in un senso o nell’altro. In un precedente articolo pubblicato su Tuttoscuola ("Così cambieranno le superiori", gennaio 2003) chi scrive proponeva di utilizzare una griglia concettuale che faceva riferimento ad una serie di indicatori, "rivelatori" della natura dei corsi. La riprendiamo qui, in forma diversa e ampliata:

 

PERCORSI LICEALI PERCORSI PROFESSIONALI
 acquisizione di un sapere di base, propedeutico alla continuazione e al perfezionamento degli studi a livello universitario;
 enfasi (non esclusiva) sull’acquisizione e l’organizzazione di conoscenze;
 terminalità aperta dei titoli conclusivi (maturità);
 sequenzialità, a sviluppo verticale, dei piani di studio, che acquistano senso compiuto e rivelano la loro coerenza complessiva solo quando sono completati;
 organizzazione didattica prevalentemente fondata su classi e programmi;
 acquisizione di elementi di cultura professionale, con finalità essenzialmente orientative, attraverso limitate esperienze di integrazione con le risorse formative del territorio .
 finalizzazione all’acquisizione di un sapere tecnico-professionale, modulare e cumulabile, spendibile nel mercato del lavoro;
 enfasi (non esclusiva) sulla acquisizione incrementale di competenze;
 autoconsistenza dei segmenti che costituiscono i diversi percorsi formativi;
 struttura capitalizzabile dei piani di studio (possibilità di proseguire gli studi, ma con uscite laterali, certificazioni annuali e qualifiche intermedie);
 organizzazione didattica prevalentemente fondata su laboratori e progetti;
 acquisizione di elementi di cultura professionale, con finalità essenzialmente formative di competenze certificabili, attraverso consistenti esperienze di alternanza e integrazione con le risorse formative del territorio.

8 licei sono perfino troppi. Articolarli in indirizzi sarebbe sbagliato

Se si applicasse con coerenza la griglia concettuale indicata nel punto precedente si eviterebbero compromessi e ambivalenze nella costruzione dei piani di studio, e si consentirebbe agli allievi e alle famiglie di scegliere tra alternative ben definite.
Nell’area liceale non si dovrebbe perciò procedere alla articolazione in indirizzi del liceo economico e di quello tecnologico, anche se la legge consente di farlo. Le ipotesi di articolazione finora affacciatesi (3-4 indirizzi per l’economico, 6-7 per il tecnologico) riporterebbero infatti all’ambiguità della soluzione panlicealista contenuta nella legge n. 30/2000, abrogata dalla riforma Moratti proprio perché favoriva l’ulteriore despecializzazione degli istituti tecnici e professionali senza risolvere il problema della costruzione di un adeguato sistema di formazione tecnico-professionale a livello secondario e postsecondario.
Il rilancio del "sistema di istruzione e formazione professionale" in termini competitivi e alternativi verso il sistema dei licei, al contrario, dovrebbe prevedere, nel modello Moratti, il recupero di una diversa e specifica identità di questi istituti, fondata sul rafforzamento della dimensione operativa degli studi e su una più ampia interazione con il mondo del lavoro. In questa direzione, e non in quella dell’ulteriore deriva licealista, dovrebbe procedere la riprogettazione dei piani di studio del "canale" professionale, che dovrebbe legarsi alla definizione da parte dello Stato, competente in materia a norma del nuovo art. 117 della Costituzione, di idonei "livelli essenziali di prestazione" ai quali le Regioni si dovranno attenere, dopo aver raggiunto l’intesa di sistema con lo Stato in seno alla Conferenza unificata.

Una proposta: i centri polivalenti di istruzione e formazione

La chiara distinzione tra i percorsi liceali e quelli professionali, e il loro diverso incardinamento istituzionale, consentirebbe allo Stato e alle Regioni di raggiungere accordi di respiro strategico per quanto riguarda lo sviluppo e l’implementazione del secondo ciclo nel suo insieme.
In tale quadro si potrebbe prevedere, per esempio, la creazione o la sperimentazione per un certo numero di anni di centri polivalenti di istruzione e formazione secondaria nei quali coesistano percorsi liceali e professionali, dal liceo tecnologico, per esempio, ai corsi triennali e quadriennali di qualifica e di diploma tecnico, dalla formazione in alternanza e per gli apprendisti alla formazione tecnica superiore.
I vantaggi di una soluzione di questo genere sarebbero numerosi: più agevole mobilità degli studenti e degli insegnanti tra i diversi percorsi, evidenziazione della "pari dignità" di corsi che si svolgono sotto lo stesso tetto (come avviene già da tempo nelle scuole secondarie svedesi), maggiori possibilità di costruire percorsi integrati, più ampia possibilità di soddisfare nelle sue diverse articolazioni la domanda sociale di istruzione e formazione secondaria, migliore disponibilità del personale dirigente e docente ad operare in una realtà educativa composita e non discriminante.

Valutazione didattica e valutazione di sistema devono convergere

Una ulteriore criticità emerge in materia di esatta individuazione del punto di equilibrio tra la logica della personalizzazione, alla quale si ispirano i Piani di Studio Personalizzati, e quella della standardizzazione, che caratterizza le Indicazioni Nazionali. I documenti finora noti mettono tutti l’accento in modo insistente e ricorrente sulla personalizzazione dei piani di studio e sulla acquisizione eminentemente individuale delle competenze. Le quali sono talmente legate alla mediazione soggettiva del rapporto tra conoscenze e abilità da non poter essere oggetto di valutazione esterna e oggettiva, ma soltanto di valutazione locale, in situazione, da parte dei docenti che hanno seguito gli allievi e stabilito per ciascuno di essi gli obiettivi formativi (OF), le unità si apprendimento (UA) e il piano di studi personalizzato (PSP). Non per nulla il Portfolio, con le sue caratteristiche di strumento valutativo ricco, flessibile e "narrativo", viene proposto in alternativa (sembra) ai voti e alle pagelle, troppo rigidi e impersonali, più legati all’oggettività delle discipline che alla soggettività dell’allievo che apprende.
Questa filosofia di radicale personalizzazione dei percorsi, portata alle sue estreme conseguenze, rischia però di rendere difficile, e teoricamente addirittura impossibile, la valutazione di sistema dei risultati dei processi formativi, legata alla oggettività e impersonalità degli obiettivi specifici di apprendimento (OSA). I quali però – è detto chiaramente nei documenti – sono obbligatori solo per l’istituzione, non per gli allievi e neppure per gli insegnanti, che devono "tradurli" in OF, UA e PSP.
Portata alle estreme conseguenze, questa divaricazione dei criteri di valutazione dei risultati raggiunti dagli allievi rischia di creare gravi incertezze. Che valore avrebbero le rilevazioni del Servizio Nazionale di Valutazione, visto che non potrebbero prendere in esame le competenze personali, ma soltanto prestazioni decontestualizzate? E quale attendibilità avrebbero le valutazioni formulate dagli insegnanti sul raggiungimento di obiettivi da essi stessi stabiliti? Si dovrebbe perciò cercare di individuare un punto di correlazione tra le due sfere valutative, individuando per esempio un nucleo essenziale di conoscenze e abilità (inserite nelle "Indicazioni nazionali") la cui acquisizione possa essere sottoposta a valutazione sia dall’INVALSI che dai docenti: si tratta pur sempre di valutare competenze personali, sia pure con metodologie diverse.

Quale alternanza scuola-lavoro?

L’alternanza scuola-lavoro di cui parla l’art. 4 della legge è l’alternanza formativa, nettamente distinta da quella lavorativa (apprendistato): la prima ha il suo baricentro nel sistema di istruzione e formazione, ed è una modalità di studio e apprendimento diversa da quella ordinaria (si realizza in parte in ambiente di lavoro) ma afferente ai normali corsi del secondo ciclo; la seconda è una forma particolare di contratto di lavoro, che prevede che una parte del tempo (da 120 a 240 ore all’anno) sia destinata ad attività formative.
E’ realistico ritenere che l’alternanza studio-lavoro troverà spazio adeguato e significativo più nei percorsi professionali che in quelli liceali, ma la legge non pone limitazioni: anche i dirigenti e i docenti dei licei dovranno saper progettare, attuare e valutare azioni che si svilupperanno fuori della aule scolastiche, in collaborazione con le imprese.
Il comma 2 dell’art. 4, aggiunto al testo in un secondo momento (non c’era nel disegno di legge iniziale), sembra per la verità circoscrivere gli effetti di ampliamento della professionalità docente alla sola figura del docente incaricato di mantenere i rapporti con le imprese e di "monitorare" gli allievi che scelgono l’alternanza. Si tratterebbe di una lettura riduttiva della potenziale riprofessionalizzazione generalizzata comportata da questo articolo della legge, che apre una finestra sull’ampliamento e la diversificazione non solo degli ambienti e delle opportunità educative ma anche della stessa funzione docente.
Da notare che l’alternanza potrebbe realizzarsi, oltre che in collaborazione con le imprese (e quindi in ambiente di lavoro, tramite il tirocinio) anche attraverso piani di studio che prevedano l’integrazione tra corsi liceali e corsi professionali (e quindi in ambiente che resta sempre istituzionalmente educativo). Anche in questo caso si deve prevedere l’acquisizione, da parte dei docenti interessati, di ulteriori competenze di carattere progettuale e valutativo.
Sul versante delle imprese, intese come "luogo formativo", emerge la necessità che esse si dotino di figure di formatori-tutor, simmetriche ai docenti delle scuole e degli istituti, in grado di dialogare sul piano professionale con questi ultimi. Un tema privilegiato del dialogo sarà quello della certificazione del tirocinio e dei crediti formativi così acquisiti dagli allievi.
Come si vede, si rende necessario un vasto piano di formazione dei docenti e dei tutor aziendali, possibilmente attraverso iniziative integrate.

 

L’autonomia delle scuole tra federalismo e "devolution"

L’art. 7 della riforma (disposizioni transitorie e finali) contiene importanti indicazioni sulle modalità di definizione dei piani di studio ai quali le scuole dovranno attenersi. I piani fanno parte dei "livelli essenziali di prestazione", obbligatori per le istituzioni scolastiche (e, previa Intesa con le Regioni, anche per il canale professionale), che saranno stabiliti a livello centrale dal governo, tramite regolamenti.

LIVELLI ESSENZIALI DI PRESTAZIONE
• nucleo essenziale dei piani di studio scolastici (discipline, obiettivi specifici di apprendimento, "attività" come i LARSA), per la quota di interesse nazionale, non quantificata dalla legge;
• orari complessivi (quota nazionale più quota regionale);
• limiti di flessibilità tra discipline (il DM 251/1998, richiamato dal DPR 275/1999, Regolamento dell’autonomia, stabilisce il limite massimo del 15% di decremento orario per ciascuna disciplina e attività interessata);
• modalità di valutazione e di certificazione dei crediti scolastici, cioè dei crediti acquisiti dagli studenti che escono dalla scuola;
• previa intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni, standard minimi formativi (durata dei corsi, competenze degli allievi) richiesti per il riconoscimento nazionale dei titoli – qualifiche e diplomi – rilasciati agli studenti a conclusione dei percorsi professionali e per i passaggi da questi ultimi ai percorsi scolastici (i passaggi in senso inverso sono previsti dall’art. 2, punto i).

Da notare il fatto che il comma 1 dell’art. 7 ribadisce il rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e – presumibilmente – anche di quelle formative, che fanno organicamente parte del secondo ciclo. Ciò dovrebbe comportare (ma sul punto non ci sono ancora posizioni univoche) che la flessibilità curricolare del 15% si applica al 100% dei piani di studio delle istituzioni scolastiche, cioè all’insieme della quota nazionale e di quella regionale dei percorsi scolastici. Sarebbe preoccupante un’interpretazione dell’autonomia delle scuole che si riducesse al fatto che esse possono decidere sui contenuti di una piccola quota dei piani di studio, mentre i "poteri forti" (Stato e Regioni) si occupano autocraticamente – ma con quali poteri di controllo e di intervento, verrebbe da chiedersi – di tutto il resto.
Il DDL sulla "devolution", insieme alle norme d’attuazione del nuovo Titolo V, alle quali sta attendendo il ministro La Loggia, potrebbero tuttavia condurre ad un diverso e più equilibrato assetto del rapporto centro-periferia, riservando al centro la competenza esclusiva in materia di obiettivi, standard e titoli di rilevanza nazionale per entrambi i canali, e alle Regioni la competenza esclusiva, sempre per entrambi i canali, in materia di programmazione, organizzazione e gestione dell’offerta formativa, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche e formative. Verrebbe in tal modo affermata in modo concreto e visibile la "pari dignità" dei due canali, che resta il punto nodale (ma tutto da concretizzare) della riforma Moratti, e si ridurrebbe l’area delle competenze concorrenti, fonte di inevitabili conflittualità interistituzionali, delle quali già si avvertono segnali preoccupanti.