Il fallimento della scuola ha prodotto una società opulenta e inoperosa

Sta suscitando un vivace dibattito il volume di Luca Ricolfi, appena pubblicato dalla Nave di Teseo, intitolato La società signorile di massa. Il volume del sociologo e statistico torinese contiene una vera e propria requisitoria sull’attuale condizione della scuola italiana, forse la più dura tra quelle comparse da diversi anni a questa parte. Più severa delle pur critiche analisi sviluppate da storici della scuola come Ernesto Galli della Loggia e Adolfo Scotto di Luzio, e forse ancora più pessimista, perché inserita in una rappresentazione complessiva della società italiana di oggi come una “società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”.

A questo fenomeno, definito ‘società signorile di massa’, piena di pensionati, rentiers, lavoratori appagati, e giovani non disposti alla sobrietà e al sacrificio (cui fa riscontro una minoranza costituita da una ‘infrastruttura paraschiavistica’ di immigrati e lavoratori marginali), ha potentemente contribuito, secondo Ricolfi, la “distruzione di scuola e università”, iniziata con l’unificazione della scuola media (1962) e la liberalizzazione degli accessi universitari (1969). Queste decisioni di politica scolastica, ma in realtà economica e sociale, favorite dal “donmilanismo dilagante”, hanno da una parte abbassato (a suo giudizio dimezzato) il livello qualitativo della preparazione degli studenti, e dall’altra deprezzato il valore delle attività lavorative a carattere pratico e dei percorsi formativi tecnici e professionali che ad esse conducevano.  Tutto ciò ha determinato un “gigantesco fenomeno sociale nuovo: la disoccupazione volontaria, specie giovanile”, caratterizzata dal fatto che chi non lavora si trova in questa condizione “non già perché non trova alcun lavoro, bensì perché non è disposto ad accettare i lavori che trova, o che potrebbe trovare. Per dirla con Elsa Fornero, già a suo tempo massacrata per averlo notato: i giovani italiani non trovano lavoro anche perché sono un po’ troppo choosy”, schizzinosi.

Come uscire da questa condizione? Ricolfi non dà ricette. Osserva solo che anche la società signorile di massa, che caratterizza oggi l’Italia più di altri Paesi, “è un prodotto a termine, con una scadenza sconosciuta nel suo DNA”, ma che se non si prenderà coscienza di ciò il declino del nostro Paese sarà sicuro e doloroso. Anche se forse non inevitabile: “Fortunatamente la varietà di esperienze delle altre società avanzate dimostra che, in quel che una società diventa, non vi è nulla di ineluttabile, e che ogni società è padrona del suo destino”. Ma, appunto, bisogna prenderne coscienza…

Tra i commenti più critici nei confronti delle tesi di Ricolfi sulla scuola si segnala quello di Francesco Sinopoli, segretario della Flc Cgil. A suo giudizio l’analisi sviluppata da Ricolfi nel suo libro (ma il sindacalista fa riferimento solo agli stralci pubblicati dal quotidiano Il Messaggero) è “l’ennesimo tentativo di screditare la scuola pubblica, la scuola democratica, la scuola che fornisce innanzitutto strumenti cognitivi per capire il mondo e le relazioni sociali e affettive”, frutto dell’errore di considerare la scuola come un’azienda di cui misurare la produttività.

Il punto sostanziale”, prosegue Sinopoli, “è che ormai la sfida lanciata alla scuola pubblica, al suo valore e alla sua funzione sociale, non è che un micidiale, rischioso, sbagliato tentativo di riportarci alla scuola gentiliana, alla scuola di classe, dove, come diceva don Milani (ma anche Antonio Gramsci), vince solo chi possiede opportunità di partenza, chi ha i libri in casa e una famiglia in grado di sostenerne l’istruzione”.

In realtà, conclude la nota di Sinopoli, “la scuola pubblica fondata sulla Costituzione, quella vissuta da una parte maggioritaria degli insegnanti, degli operatori e degli studenti del nostro paese, vola un po’ più in alto, pensa di poter offrire a tutte le nostre ragazze e i nostri ragazzi una prospettiva più elevata di quella da cui provengono, che elimini le disuguaglianze e le fratture sociali, che non chiuda le porte dei licei a chi, a quattordici anni, non è in possesso dei ‘prerequisiti’ e, infine, pensa che tutti, istruiti al meglio, non siano affatto un capitale umano da sfruttare”.

Parole pesanti, quelle del leader della Flc Cgil, ma nel suo libro (che andrebbe letto per intero) Ricolfi non mette in discussione le finalità della “scuola pubblica fondata sulla Costituzione”, ma i suoi risultati concreti, che tali finalità contraddicono sia dal punto di vista della qualità dei risultati sia e soprattutto da quello dell’equità, vista la persistenza delle disuguaglianze e delle fratture sociali che essa non ha affatto eliminato ma piuttosto occultato sotto una coltre di apparente inclusività e di ingannevole facilitazione dei percorsi, come dimostrano gli scadenti risultati degli studenti italiani nelle indagini comparative internazionali e i fortissimi squilibri Nord-Sud emersi nelle prove nazionali Invalsi.

Ricolfi non fa che prendere atto di questa situazione con crudo realismo, ma non ci sembra affatto che proponga un ritorno alla selettività classista del modello gentiliano. Caso mai, come accenna nella parte finale del suo libro, per evitare la decadenza della ‘società signorile di massa’ serviranno idee nuove. E magari una scuola davvero democratica, come quella attuale non è. (ON)