Il ‘duale’ tedesco sugli scudi, con qualche equivoco

Nei giorni scorsi si è parlato molto della Germania, e non solo perché dalle decisioni della Corte costituzionale tedesca dipenderà il maggiore o minore grado di integrazione finanziaria (e in prospettiva economica) dell’Europa.

Della Germania e del ‘modello tedesco’ si è parlato, in occasione del recente incontro quadrangolare Italia-Germania-Francia-Spagna, anche a proposito del suo sistema educativo, caratterizzato da una effettiva ‘pari dignità’ dei percorsi di istruzione liceali-accademici a tempo pieno da una parte con quelli tecnico-professionali a tempo (scolastico) parziale, e basati sull’alternanza scuola-lavoro dall’altra: il cosiddetto ‘sistema duale’.

Il Corriere della Sera, in particolare, ha dedicato molta attenzione a questo secondo (non gerarchicamente) canale del sistema educativo tedesco con un’ampia intervista al ministro del Lavoro Ursula Von der Leyen e altri articoli di approfondimento nei quali si è parlato con non celata ammirazione del ‘sistema duale’ attuato in quel Paese, frequentato da molti top manager delle principali aziende.

E’ bene chiarire che il ‘duale’, in Germania, funziona a due diversi livelli del sistema educativo: in uscita dalla scuola media (16-18 anni), in alternativa alla scuola secondaria di secondo grado (tre giorni in azienda, due a scuola), e a livello post-secondario (Fachhochschulen) in alternativa all’università, con diverse combinazioni tra periodi di studio e periodi di lavoro. Molti top manager tedeschi, compresi quelli citati dal quotidiano milanese, vengono dalle Fachhochschulen, da sempre considerate di pari livello con le università, e per certe professioni preferibili ad esse. In qualche misura gli Istituti Tecnici Superiori italiani si ispirano a quel modello. Lontanissimi in media dalla qualità del ‘duale’ tedesco a livello secondario sono invece i percorsi di ‘istruzione e formazione’ attuati in Italia, e quelli in apprendistato, in teoria i più simili.