Da super manager a insegnante. Perché no?

La notizia è di qualche tempo fa, ma è tornata di attualità nei giorni scorsi perché la quasi sessantenne Lucy Kellaway, nota e apprezzata editorialista del Financial Times, sta rendendo operativa la sua decisione, annunciata nel novembre 2016, di abbandonare la carriera giornalistica per intraprendere quella di insegnante di matematica. E ha scelto una scuola superiore di uno dei quartieri più disagiati, non una scuola per ricchi, magari frequentata dai figli dei suoi molti lettori.

A una certa età ho pensato che era giusto restituire qualcosa alla società”, ha spiegato la famosa columnist ai suoi colleghi. Ha perciò promosso l’organizzazione benefica Now Teach, che si propone di “incoraggiare manager, banchieri, avvocati vicini alla pensione a lasciare il loro lavoro per mettersi dietro a una cattedra”.

L’iniziativa si comprende meglio in una realtà, come quella britannica, nella quale si registra da anni una forte carenza di insegnanti, fenomeno che aveva indotto Katie Waldegrave, cofondatrice con la Kellaway di Now Teach, a promuovere un’altra organizzazione, Teach First, con il proposito di convincere i laureati britannici a rinviare il loro ingresso in azienda per dedicarsi prima all’insegnamento.  

Con Now Teach però – ha spiegato Lucy in una intervista rilasciata a La Stampaabbiamo rovesciato la prospettiva: non ci rivolgiamo ai giovani freschi di laurea, ma a persone che hanno già fatto carriera e che pensano di essere utili nella formazione dei ragazzi”, soprattutto dei più difficili, “quelli non di madrelingua inglese o quelli che hanno un duro passato famigliare alle spalle”. Alla obiezione di chi ritiene che sia rischioso mandare in cattedra persone che per una vita hanno fatto altri mestieri la Kellaway risponde che comunque i neo-insegnanti saranno a loro volta seguiti da un team di professionisti dell’educazione.  

L’iniziativa ha dato luogo sulla stampa inglese a un dibattito sulla rilevanza sociale dell’insegnamento e della stessa figura dell’insegnante, con l’obiettivo di rivalutarla agli occhi di un’opinione pubblica che l’ha progressivamente collocata ai margini dell’appetibilità professionale e della considerazione sociale.

Negli USA la crisi della professione insegnante si manifesta soprattutto in forma di precoce abbandono della scuola da parte dei migliori giovani insegnanti, attratti da impieghi meglio retribuiti e magari meno faticosi. Molti Stati, incoraggiati in questo anche dalla legge ESSA (Every Student Succeeds Act), voluta da Obama e in piena fase di implementazione malgrado i tentativi di Donald Trump e della sua ministra DeVos di bloccarne le misure più significative di segno democratico, stanno assumendo iniziative per trattenere a scuola i migliori 30-40enni.

Paragoni con la situazione italiana sono impropri, date le profonde differenze dei sistemi educativi, ma soprattutto per alcune discipline dell’area tecnica e scientifica anche da noi si registrano difficoltà nel reperimento di giovani, validi aspiranti insegnanti. Cosa fare per invertire questa tendenza? Sono pensabili (e accettabili dai sindacati) trattamenti differenziati e/o incentivi per queste categorie di insegnanti? O il trattenimento volontario in servizio (magari part-time) dei pensionati? O contratti ad personam per professionisti affermati desiderosi di concludere la loro vita di lavoro con un’esperienza di insegnamento, come succede nella Gran Bretagna di Lucy Kellaway?