Dispersione scolastica: il ruolo delle istituzioni per combatterla

La società della conoscenza, che ogni Stato europeo tenta di perseguire, richiede per competere a livello globale standard elevati di competenze insieme con professionalità flessibili ed aperte al cambiamento ma, soprattutto, una formazione elevata e di buon livello qualitativo. Il dossier di Tuttoscuola, “La scuola colabrodo”, con la sua analisi puntuale e ad ampio spettro, ci consegna un’immagine di Paese certamente non in grado di competere con le sfide in atto e con quelle che verranno. Ne parliamo nel numero di novembre di Tuttoscuola in un articolo di Speranzina Ferraro, esperta di sistemi formativi.

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Scorrendo il dossier ed i dati forniti, si apprende che per ogni ciclo quinquennale dal 1995 sono mancati all’appello nella scuola secondaria superiore statale ben 150-200 mila studenti che si erano iscritti cinque anni prima in prima e spariti in quinta, fortunatamente con un trend in diminuzione: dal 35% del 2000-01 al 24,7% del 2017-18. Dal 1995 al 2013-14 circa 3 milioni e mezzo di ragazzi italiani iscritti alle scuole superiori statali non hanno completato il corso di studi, che rappresentano circa il 30,6% degli oltre 11 milioni di studenti che si erano iscritti alle scuole superiori statali.  È vero che una parte di essi, abbandonata la scuola statale, è rientrata nella scuola non statale o nei canali dell’istruzione e formazione professionale, tuttavia ad oggi non abbiamo la certezza dei numeri in quanto manca ancora un’anagrafe integrata tra sistema d’istruzione (statale e paritaria) e sistema formativo regionale.

A questi numeri, che il dossier citato fornisce corredati da un’attenta e ampia analisi, si aggiungono i dati preoccupanti che vengono dall’università. All’università la dispersione universitaria si assesta intorno al 50% e, maggiormente tra i figli di genitori con bassa istruzione; inoltre, l’incidenza dei laureati resta in Italia tra le più basse nell’Unione europea. Infatti, come riporta l’analisi di Tuttoscuola, su 100 studenti iscritti alla scuola statale che ottengono la licenza media, arrivano al diploma in 75 e alla laurea in 18. Ma a questo gap si aggiunge un altro dato che va ad impattare negativamente sul nostro sistema sia formativo che produttivo. Molti dei nostri laureati, circa un quarto, con un buon livello di formazione, non trovano nel Paese gli sbocchi e le opportunità adeguate al loro livello di formazione e si trasferiscono in altri paesi, spesso definitivamente. Invece, il 38% dei diplomati e laureati che restano, spesso non trovano un lavoro  e una remunerazione corrispondenti al livello di studi fatti.

Quindi il fenomeno della dispersione in Italia ha una doppia faccia, perché si manifesta sia in entrata sia in uscita, sottraendo al sistema paese capitale umano prezioso tra cui anche le cosiddette eccellenze.

Considerato che, poco o tanto che sia, il nostro Paese ogni anno per ciascun studente impegna risorse finanziarie pari a €. 6.914,31 l’anno per ogni studente della scuola secondaria di 2° grado, il costo per i 3,5 milioni di studenti che non ce l’hanno fatta si può stimare, secondo i calcoli di Tuttoscuola, in circa 55 miliardi di euro, che sono andati persi. Tutto ciò si traduce in capitale umano disperso, disoccupazione o sottoccupazione dei giovani con basso livello di istruzione, ma il fenomeno ha anche un impatto negativo sul PIL, come si evince dalla ricerca “LOST. Dispersione scolastica: il costo per la collettività e il ruolo di scuole e terzo settore”, a cura di D. Checchi. Quindi, la dispersione scolastica è una perdita e un fallimento per la scuola, che non è riuscita a promuovere i talenti di tanti giovani, ma è una perdita per il paese, che si traduce in calo dell’occupazione e della produttività, aumento del disagio sociale e della povertà, incremento della microcriminalità e peggioramento della salute della popolazione.  Infatti, ricerche del mondo della sanità dimostrano che un maggiore livello di istruzione può abbassare il rischio di malattie cardiache ma anche aumentare l’attenzione verso la cura del proprio stato di salute in generale.

Quindi, la dispersione scolastica è senz’altro un fallimento della scuola che non ha saputo mettere in atto interventi finalizzati a motivare gli studenti e stimolarli al perseguimento del proprio successo formativo e della propria crescita umana, sociale e intellettuale, ma anche della società tutta e di tutte le istituzioni coinvolte e responsabili per la loro parte dell’educazione dei giovani.  Recentemente lo stesso Presidente della Repubblica ha invitato a considerare il tema della dispersione scolastica come questione centrale non solo per la scuola ma per l’intero Paese, definendola “un’amputazione civile e anche una perdita economica per il Paese”. L’istruzione, infatti, migliora il livello generale di vita delle persone e, soprattutto, innalza la speranza e le attese verso il futuro.

Senza dubbio, pur essendo ripetuti e numerosi gli interventi e le risorse impegnate nel tempo dal Ministero dell’istruzione e da altre Istituzioni  per fronteggiare questo problema, che continua a minacciare lo sviluppo stesso del nostro paese, la dispersione scolastica e formativa rimane elevata e non riceve la stessa attenzione che i politici e i media riservano ad un altro problema epocale dei nostri tempi, cioè l’immigrazione, che ha cambiato la composizione delle nostre classi, imponendo la presa in carico dell’integrazione e dell’istruzione di  minori provenienti da tanti paesi.

La scuola ha senza dubbio le sue responsabilità, poiché il suo impianto, basato sull’insegnamento, non si è modificato nel tempo e non è stato scalfito dai tanti sconvolgimenti che negli ultimi trenta anni hanno attraversato la società, l’economia, la famiglia, le istituzioni, il lavoro, i modelli di vita e i valori di riferimento. Un segnale chiaro di allarme doveva venire agli operatori scolastici dalla diversa composizione delle classi, divenute più numerose, a seguito della scuola di massa, aperta a tutti, e dell’inserimento di tanti studenti provenienti da paesi e culture tanto diversi. Questi elementi, già di per sé importanti, avrebbero dovuto innescare un percorso di cambiamento e differenti assetti dell’impianto metodologico-didattico, che purtroppo non ci sono stati. Approfondiamo la questione nel numero di novembre di Tuttoscuola.

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