Corte di giustizia UE: quelle aspettative deluse…

Il battage si era fatto forte, quasi assordante, man mano che ci si avvicinava alla data fatidica del 27 marzo 2014, giorno in cui si era lasciato credere – pensiamo in buona fede, ma con qualche superficialità – che la Corte di giustizia europea avrebbe impresso una svolta epocale al destino dei precari italiani con più di tre anni di servizio che a quella Corte avevano presentato ricorso, sostenuti dai sindacati vecchi e nuovi per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato in applicazione della direttiva europea 1999/70/CE, recepita in Italia con il D.lgs. 368/2001 ma poi non eseguita e anzi dichiarata non applicabile dalla legge n. 106/2011.

Così non è stato perché, come hanno spiegato i funzionari della Corte, la procedura prevede che la prima seduta, in questo tipo di procedimenti, sia dedicata all’ascolto delle ragioni delle parti, senza alcuna valutazione di merito da parte dei giudici, pur presenti. In pratica hanno parlato, da una parte, gli avvocati dei ricorrenti e il rappresentante della Commissione europea, e dall’altra l’avvocatura dello Stato italiano, che hanno ripetuto tesi già note da tempo.

Quanto tempo servirà ai giudici, peraltro impegnati anche in altri procedimenti, per occuparsi del caso e arrivare a sentenza? L’addetta stampa della Corte, interpellata in proposito, si è limitata a dire che, su base statistica, la durata media di controversie di complessità analoga a questa è di 16,3 mesi. Pochi se paragonati ai tempi infiniti della giustizia italiana, ma certamente molti per chi aveva sperato almeno in una prima chiara determinazione.

Gli avvocati dei ricorrenti italiani e le loro organizzazioni di riferimento devono a questo punto ammettere, anche se lo faranno a denti stretti, di aver sottovalutato la complessità e la durata della procedura. E di aver dato per vinta la partita prima ancora di giocarla.