Che significa investire nell’istruzione?/3. I buoni propositi della ministra Azzolina

In occasione della sua audizione alla Camera della scorsa settimana, che aveva all’ordine del giorno le problematiche legate all’inizio dell’anno scolastico, la ministra Azzolina ha detto che “Uno dei traguardi più importanti sarà raggiunto quando ci sarà una vera e propria trasformazione digitale degli ambienti scolastici e il potenziamento delle competenze digitali degli studenti e delle studentesse, nonché di tutto il personale scolastico. L’obiettivo del Governo è, infatti, la completa transizione al digitale della scuola italiana”.

Bene, ma in che modo, con quali tempi? La ministra ha accennato sinteticamente a tre misure: la trasformazione di tutte le aule in ambienti di apprendimento innovativi, con strumentazioni all’avanguardia; la creazione di 2.700 Digital Labs, uno per ogni scuola secondaria di secondo grado, con il compito di formare il personale e organizzare attività didattiche innovative per gli studenti; la piena digitalizzazione dei sistemi informatici, delle banche dati e delle infrastrutture amministrative delle istituzioni scolastiche.

Quanto ai tempi la ministra ha fatto riferimento a quelli del Recovery Fund: “Il 70% del Recovery Fund sarà impiegato entro il 2021 e 2022, mentre il 30% dovrà essere investito entro il 2023. Con i fondi europei cercheremo di eliminare le classi pollaio e di migliorare le competenze chiave per un’istruzione di qualità” alla quale gli studenti possano accedere “indipendentemente dal contesto socio-economico di appartenenza, contrastando il fenomeno della dispersione scolastica”.

Ottimi propositi, anche se alquanto generici tranne che, forse, in materia di edilizia scolastica. Sulla digitalizzazione gli impegni enunciati sono questi: “implementazione di curricoli per le competenze digitali in ogni grado di istruzione; realizzazione di uno specifico piano di formazione mirato al miglioramento delle competenze digitali dei docenti, dei dirigenti, del personale ATA; attivazione di una piattaforma nazionale di supporto e accompagnamento per lo sviluppo di competenze digitali della scuola italiana e di percorsi accessibili e certificabili; iniziative progettuali mirate, per uno sviluppo a sistema e la massima diffusione di metodologie didattiche innovative”.

Per quanto possibile, in attesa del Recovery Fund, sarebbe bene che le azioni relative alla digitalizzazione, alcune delle quali previste nel PNSD, partissero subito, anche perché potrebbero incrociare un accresciuto fabbisogno di DaD, legato all’andamento della pandemia da Covid-19.

E anzi ci chiediamo: perché non si sono sfruttati i mesi da maggio – quando si era stabilizzata la situazione dopo lo shock del lockdown – fino ad oggi, per fare un piano massivo di formazione sulla didattica digitale? Era prevedibile infatti che ci saremmo trovati di fronte a chiusure a scacchiera delle scuole e a riduzioni generalizzate del tempo scuola in presenza. Non ci riferiamo a iniziative estemporanee e di scarsa presa e penetrazione come quelle che si sono viste, neanche note ai più, ma a cicli formativi coerenti ed efficaci per centinaia di migliaia di docenti. Invece di farsi influenzare dalla demonizzazione della Dad, si sarebbe potuto (e dovuto) mettere in condizione gli insegnanti di fare lezioni di qualità nel momento in cui non fosse possibile farle in presenza. La necessità si sta già manifestando per molti studenti e continuerà a manifestarsi per milioni e milioni di ore di lezione. Che rischiano di non essere fatte o fatte male.