Scuole buone, scuole belle: riflessioni di un’empirista

Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’email della dirigente scolastica Silvia Parigi, a commento del piano governativo denominato “La Buona Scuola”.

Invitiamo i lettori a commentare il contributo e a proporre nuovi temi di discussione, scrivendoci come di consueto all’indirizzo dedicato la_tribuna@tuttoscuola.com.

Scuole buone, scuole belle: riflessioni di un’empirista

Gli empiristi, si sa, non sono di ampie vedute: si ostinano a cercare il significato di ogni parola – soprattutto delle più impegnative e altisonanti; credono che ad ogni termine debba corrispondere un’idea nella mente di colui che lo usa, o che cerca di comprenderlo.

Non assomigliano a civette dalla vista acuta, finanche notturna: niente “nottole di Minerva”, ma piuttosto ragni, api e formiche; sono convinti che all’intelletto – così come alla lingua – non si debbano mettere “ali”, bensì “piombo e pesi”, per mantenerli vincolati a un mondo, il quale, per essere così in basso, non per questo è meno vero: il mondo, appunto, dell’esperienza.

Applicherò, pertanto, gli strumenti dell’analisi del linguaggio alla “rivoluzione” della “buona scuola”, a cominciare dal termine “rivoluzione”, che  ha due significati principali:

a)      quello, di uso prevalentemente astronomico, di “eterno ritorno dell’uguale”;

b)     quello, di uso prevalentemente politico, di “mutamento radicale di un ordine dato”.

Mostrerò che la “rivoluzione” della “buona scuola” non è da intendere nel secondo significato, ma nel primo, con argomentazioni di mero buon senso, interamente fondate sull’esperienza. Ne approfitterò per segnalare, incidentalmente, alcune fallacie logiche.

1.      Gli studenti! Chi sono costoro?

Partiamo dagli studenti, perché la scuola si fa per loro: ne sono, insieme, la causa efficiente (senza studenti, una scuola chiude) e la causa finale (la formazione di cittadini liberi, critici e responsabili è lo scopo al quale tutti gli sforzi – didattici e organizzativi – dovrebbero tendere incessantemente).

Dal documento ministeriale, si evince che gli studenti sono coloro dei quali occorre misurare il livello di apprendimento per poter elaborare “piani triennali di miglioramento” della scuola che li ospita e dovrebbe educarli. Saranno anche destinatari di ore aggiuntive di educazione musicale e motoria, nella scuola primaria; in tutti gli ordini e gradi di scuole, vi saranno materie curricolari insegnate in una lingua straniera (il metodo CLIL), e naturalmente informatica, programmazione (coding) ed economia.

Non mi soffermerò sulle sinistre evocazioni richiamate dai “piani triennali”; ma come non ricordare le indimenticabili “tre I” della riforma Moratti: “Inglese, Internet, Impresa”? Dove e quanti sono i docenti “formati” per insegnare una disciplina non linguistica in inglese, o in un’altra lingua comunitaria? Finora tale investimento di tempo è stato una libera scelta: i docenti saranno d’ora in poi costretti a formarsi in tal senso? Con quali fondi?

E inoltre: è davvero utile, e migliorerà la qualità dei cittadini di domani, e degli studenti di oggi, studiare la filosofia di Hegel in inglese, o la storia dell’Impero romano in francese? Non ne usciranno lezioni povere di contenuti ed elementari nella forma?

Intanto, gli studenti attendono con ansia di conoscere il loro destino in un futuro assai prossimo:

a)      è tuttora incerta la struttura dell’esame di stato, sia riguardo alla composizione delle commissioni, sia riguardo al numero e alla natura delle prove;

b)      cosa ne sarà dei test di ammissione alle facoltà a numero chiuso (Medicina, in primis)? Aboliti? Posticipati alla fine del primo anno? Confermati? Ad aprile o a settembre?

Rimandare a gennaio la risposta a tali quesiti non è rispettoso nei confronti degli studenti. Ė inoltre evidente la contraddizione n. 1 implicita nel punto a): se “autonomia è il contrario di autoreferenzialità”, come la mettiamo con una commissione tutta interna, nella quale gli stessi docenti che, dieci giorni prima, hanno scrutinato i ragazzi, si ritrovano tristemente, dieci giorni dopo, a valutarli di nuovo?

Anche questa illuminata “riforma” – per fortuna già scongiurata, a quanto sembra – non è altro che un ritorno della riforma Moratti, che tanto bene ha fatto ai diplomifici, nei sei anni in cui tale clausola è rimasta in vigore!

2.      I docenti: bravissimi, bravi o “mediamente bravi”?

Ed eccoci al cuore della “rivoluzione”: il concetto di “merito”. Basta con l’anzianità! Bisogna “chiudere i conti con il passato”, riconoscendo finalmente il merito. Ma come?

a)      con una massiccia immissione in ruolo ope legis dei precari – concetto che risale alle “sanatorie” e ai famigerati “corsi abilitanti” degli anni ’70. Quelle immissioni in ruolo hanno migliorato il livello della scuola pubblica? O ne stiamo ancora pagando le conseguenze? Tra i precari “storici”, tutti rispettano l’imperativo morale del merito? Anche quelli che non insegnano più da anni? E chi pagherà i costi di tale operazione, visto che non ci sono risorse aggiuntive da destinare alle scuole? Forse il “taglio” dei commissari esterni negli esami di stato? O forse…

b)      con gli “scatti di competenza” – quantificabili nella cifra di 60 euro mensili, ogni tre anni dalla fine del 2018. Gli “scatti di competenza” sono quel doveroso riconoscimento attribuito ai docenti “bravi” da parte dei docenti “bravissimi” o mentores che compongono il Nucleo di Valutazione interno ad ogni scuola. “Bravi” potranno dirsi quei docenti che avranno maturato, allo scadere del triennio, una maggiore quantità di crediti didattici, formativi e professionali – saltando da una lezione in classe a un progetto pomeridiano, da una pubblicazione a una funzione strumentale come il grande dittatore di Charlot: al massimo il 66% dei docenti di una scuola. “Bravissimi” saranno poi quelli che li giudicano: i docenti capaci di sovraintendere alla formazione dei colleghi e dei tirocinanti, affiancando il preside nell’organizzazione della scuola. “Chissà se avranno ancora tempo libero per insegnare, o se saranno esonerati?” – si chiede la limitata mente dell’empirista. Ma sì, certo, dovranno insegnare per forza, perché nella “buona scuola” non esiste più l’esonero, né il semiesonero per i vicepresidi! Anche questo, come la presenza dei commissari esterni, è uno “spreco” da tagliare! Nelle “buone scuole” basta il Dirigente da solo a gestire tutti i plessi, tutte le sedi, tutte le classi, fino a un numero n grande a piacere!

c)       Alcune noiose, puntigliose postille:

–         Mentores si nasce o si diventa? L’epiteto di “innovatori naturali” sembrerebbe designare una costituzione, una vocazione innata; si apprende però che è il Nucleo di Valutazione a scegliere i mentores tra quanti, per tre trienni consecutivi, abbiano maturato gli “scatti di competenza”: potenza del numero tre, e dei multipli di tre!

–         Ma qui si cela la fallacia del circolo: i docenti mentores fanno parte del Nucleo di valutazione che li sceglie! Last, but not the least:

d)      Cosa ne sarà di quei “docenti mediamente bravi”, pari al rimanente 33%, esclusi dagli “scatti di competenza”? Ė facile: dovranno andarsi a cercare scuole “mediamente meno buone”, dove potranno a loro volta eccellere.

Ma  l’empirista, costituzionalmente narrow-minded, a questo punto non può fare a meno di chiedersi:

– questo curioso modo di intendere le “pari opportunità” è un circolo virtuoso o un circolo vizioso, che porta al progressivo peggioramento delle scuole “meno buone”, destinate ad una inarrestabile e fatale discesa agli inferi?

– il concetto di “bravura” di un insegnante ammette gradi? Oppure parlare di docenti “mediamente bravi” è come parlare di donne “mediamente incinte”?

3. Il “buon timoniere”: trasparente, autonomo, antiburocrate e iperconnesso

Ė questo il sogno di ogni buon preside, di ogni bravo insegnante, moderno genitore e motivato studente: una scuola 2.0, tutta “in chiaro”, trasparentissima quanto all’organizzazione, al bilancio e alle modalità di gestione. Si profilano all’orizzonte due grandi Registri: quello dei docenti, in grado di contenere il curriculum – o portfolio, infelice termine di morattiana memoria – di ciascun professore; e quello delle scuole: un enorme catalogo on-line di performances educative.

Dal primo dovrebbero attingere i dirigenti scolastici, per migliorare la qualità dell’insegnamento nella scuola che dirigono, “scegliendo” i professori; l’altro dovrebbe invece servire ai genitori per individuare la scuola migliore per i loro figli. Ma ecco che si insinua, subdola, la contraddizione n. 2: i presidi potranno scegliere i professori che più gli aggradano, sì, ma “nel rispetto della continuità”. Quindi, sembra di capire, a meno che un docente non decida di trasferirsi, bisogna tenerselo, come che sia.

Autonomo” il Dirigente Scolastico lo è sempre stato, laddove si dia alla parola “autonomia” il suo più autentico, originario e profondo significato italico: che ciascuno si arrangi da solo, come sa e come può. “Trasparente” è destinato a diventarlo sempre di più, perché – dopo l’abolizione dell’esonero e del semiesonero per i vicepresidi – è destinato a correre incessantemente da una sede all’altra, da una classe all’altra, da un ufficio all’altro. Leggerà forse meno circolari, a patto che abbia buone gambe.

Quanto alla connessione … attenti a non sbagliare! Mai più strumenti “pesanti” e spaventosi come le LIM! La tecnologia, apprendiamo, ““non deve essere costrittiva e catalizzare l’attenzione, ma deve essere abilitante, diffusa, personale, discreta”: la mente dell’empirista corre, per associazione di idee, ai cellulari sottobanco!

4.      E il personale ATA?

Nulla di preciso sappiamo di loro: solo che il “merito” determinerà parimenti la loro carriera, e che la progressiva connessione renderà parallelamente “mediamente meno indispensabile” (stavolta il corsivo è nostro) il loro ruolo.

5.      Scuole belle, scuole nuove, scuole sicure

Sull’edilizia scolastica, ogni onesto empirista deve tacere perché “nessuno può sopportare troppa realtà” (Thomas S. Eliot) e perché “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere” (Ludwig Wittgenstein).  Ma, se la mente si arresta, il cuore dolorosamente si trascina alla prossima scadenza (2015) dei fondi europei, elargiti alle regioni più bisognose (Campania, Calabria, Sicilia) e finora non spesi – come si suol dire,  nel silenzio delle istituzioni…

Il sole sorge e tramonta, le stagioni passano nelle immote rivoluzioni astrali; i governi e i ministri si succedono, ma la necessità di difendere la scuola dal dilettantismo, dal pressappochismo, dalla superficialità e dalle parole prive di significato rimane costante. L’ultima volta è stato appena due anni fa, quando, in un’altra legge di Stabilità (così si chiamano, da qualche tempo a questa parte, le Finanziarie, che ospitano estemporanee “riforme” finalizzate a tagliare i “rami secchi” dell’istruzione e della ricerca), l’allora ministro Profumo accrebbe di un terzo, da un giorno all’altro, l’orario di servizio dei docenti, naturalmente a saldo invariato, per poi rientrare nell’orbita usata.

… Se questa è una rivoluzione, io sono un gufo.

Silvia Parigi

Dirigente Scolastico del Liceo “Comenio” di Napoli