Maturità, un rito ormai inutile?

Se Mariastella Gelmini terrà duro sulla questione della non ammissione (a partire dal prossimo anno, presumibilmente) all’esame di maturità in caso di presenza anche di un solo cinque, diventerà ancora più difficile giustificare l’ulteriore mantenimento dell’esame di Stato nella sua forma attuale.

L’esame conclusivo di un ciclo di studi, da noi come in altri Paesi che lo prevedono, ha senso se costituisce in qualche modo anche una prova d’appello rispetto alle valutazioni ricevute in corso di studi e in sede di ammissione. Perfino la severissima maturità di Giovanni Gentile contemplava la possibilità di essere ammessi all’esame con “almeno cinque decimi del massimo dei punti da assegnarsi per il profitto” (nell’allegato una ricostruzione delle regole per l’ammissione alla maturità da Gentile alla Gelmini).

E’ vero che già la riforma dell’esame voluta dall’ex ministro Fioroni andava nella direzione di escludere dall’esame gli studenti che non avessero “saldato i debiti formativi contratti nei precedenti anni scolastici“, ma l’ammissione era consentita comunque per gli studenti “valutati positivamente in sede di scrutinio finale“. Un’espressione generica, che lasciava ai Consigli di classe qualche margine di flessibilità interpretativa (il decreto n.80/2007 parlava di valutazione “complessivamente sufficiente“).

Così non è nel caso dell’art. 6 dello Schema di Regolamento sulla valutazione, che se rigidamente interpretato costringerà i maturandi a notevoli sforzi per evitare la non ammissione.

Ma anche ammesso che gli studenti riescano davvero a raggiungere la sufficienza in tutte le materie (una sufficienza non “politica”), la domanda è: non sarà, a quel punto, un esame svuotato di gran parte del suo significato?